Da giorni si discute dei commenti intrisi di odio scritti da utenti di Facebook sotto la notizia del malore che ha colpito Pier Luigi Bersani. Ne è nato un dibattito fertile, che ha coinvolto alcuni giornalisti esperti di interazioni in rete.
Al di là delle diverse interpretazioni del fenomeno e delle contromisure che in alcuni casi vengono suggerite, tutti lamentano la mancanza di dati oggettivi che ci consentano di comprendere se il fenomeno dell’hate speech sia caratteristico della comunicazione mediata da Internet, o se rifletta invece un più generale problema culturale e di coesione sociale che non riguarda solo i naviganti.

In altri termini, non disponiamo del controfattuale: siamo in grado di misurare la diffusione dell’hate speech, o più in generale dei comportamenti litigiosi, nelle interazioni “fisiche”? Sappiamo come si comporterebbero i commentatori che spargono odio su Facebook se si trovassero faccia a faccia coi loro interlocutori? No di certo. Tuttavia disponiamo di dati che possono aiutarci a capire, se non le radici, almeno le conseguenze del fenomeno. Francesco Sarracino ed io li abbiamo utilizzati per analizzare come l’uso di Facebook e Twitter sta cambiando alcune norme sociali in Italia.

Fabio Chiusi ha scritto su Wired che: “L’odio non è colpa di Internet non solo perché Internet non odia, ma anche perché oltre all’odio, su Internet, c’è tutta la variegata gamma dei sentimenti e delle relazioni umane, e non si capisce – non ho dati lo smentiscano – perché dovrebbe presentarsi in proporzioni diverse al bar, in piazza o sui social media.”
Verissimo. Ma grazie all’Indagine Multiscopo condotta ogni anno dall’Istat possiamo almeno confrontare i comportamenti e le percezioni degli utenti dei social network con quelli di coloro che, invece, non li frequentano affatto. E dal confronto emergono risultati molto interessanti.

In questo paper (“Will Facebook destroy social capital?”), presentato recentemente a Mosca (alla conferenza “Cultural and Economic changes under cross-national perspective”) mostriamo che chi usa Facebook e/o Twitter si fida degli altri significativamente di meno rispetto a coloro che invece sviluppano le loro interazioni sociali esclusivamente “di persona”, a parità di sesso, età, livello di istruzione, condizione professionale, status nella professione, luogo di residenza e altre caratteristiche socio-demografiche individuali.

Iniziare a usare i social network comporta una diminuzione dell’8% della probabilità di fidarsi degli estranei. Per le donne l’effetto sulla distruzione di fiducia è ancora più marcato.
Le tecniche econometriche utilizzate per condurre le stime consentono di tenere conto dei problemi di causalità intrinsecamente connessi a questo tipo di analisi (rimando alla lettura del paper per i dettagli).

Credo che l’interpretazione di questi risultati ci permetta di aggiungere alcune considerazioni al dibattito di questi giorni. È vero che al bar, in piazza, o sui social media l’intera gamma di sentimenti umani è rappresentata in ugual misura, come scrive Fabio Chiusi. Ma nelle interazioni fisiche generalmente selezioniamo quali amici frequentare, specie quando si tratta di scambiare idee su temi sensibili che coinvolgono le opinioni politiche, l’impegno civile e i valori morali. Sui social, invece, i meccanismi di selezione sono molto più deboli, se non del tutto assenti. Quando andiamo a cena fuori sappiamo in anticipo chi siederà alla nostra tavola. Quando scriviamo dei commenti sotto una notizia pubblicata da un quotidiano su Facebook, invece, non possiamo prevedere con chi interagiremo, e spesso ci capita di “incontrare” persone con cui non ci sogneremmo mai di andare a cena.

Come ho già scritto qui, la rete accoglie un grado di diversità – culturale, sociale ed economica, per esempio – molto più ampio dei nostri ristretti circoli di amici e conoscenti. Scambiare idee su temi come il razzismo, l’omofobia o l’aborto con persone “incontrate in rete” può logorare la fiducia nei confronti degli “altri” (dove col termine “altri” intendo tutti coloro che non conosciamo, dei cui valori e comportamenti cioè non abbiamo alcuna esperienza pregressa), diversamente da quanto può accadere se degli stessi temi parliamo al ristorante, insieme a una ristretta cerchia di amici accuratamente selezionati.

Tale interpretazione è a mio parere rafforzata dall’ipotesi, condivisibilmente sostenuta dallo stesso Fabio Chiusi, che l’odio sia, come gli altri sentimenti, uniformemente distribuito dentro e fuori la rete. Vittorio Zambardino qualche giorno fa ha scritto, in uno status su Facebook piuttosto efficace: “La merda è sempre esistita, Internet ce ne fa solo sentire l’odore” (letto sul blog di Alessandro Gilioli). Sembra abbastanza naturale che chi usa i social network tenda quindi a essere più diffidente di chi non li usa, proprio in virtù della maggiore consapevolezza dei limiti dell’ambiente sociale circostante.

Le differenze di genere costituiscono un aspetto particolarmente dolente dei nostri risultati. Sui social network l’hate speech colpisce soprattutto, e in maniera più dura, le donne, come ha scritto ieri Amanda Hess su Pacific Standard. Sembra quindi logico che per le donne l’interazione in rete sia associata a un calo di fiducia ancora più significativo.

Massimo Mantellini ha suggerito un modo per risolvere il problema apparentemente semplice e già ben conosciuto da chiunque abbia iniziato a usare la rete prima dell’avvento dei social network: la moderazione dei commenti da parte del gestore dello spazio web, dal privato cittadino che scrive un blog amatoriale al quotidiano nazionale la cui pagina Facebook può vantare milioni di fan.

Perché preoccuparsi tanto delle conseguenze dell’uso di Facebook sulla fiducia? Vale la pena ricordare che l’analisi dei fenomeni che determinano la creazione o la distruzione di fiducia è centrale nel lavoro degli economisti fin dai tempi di Adam Smith, perché la fiducia riduce i costi di transazione, agevola il credito, stimola gli investimenti e favorisce l’innovazione. In altre parole, e in modo un po’ riduttivo, fa girare l’economia.
Infine, non bisogna sottovalutare gli effetti delle interazioni mediate sul benessere  soggettivo delle persone. Francesco Sarracino e io stiamo usando gli stessi dati per analizzare come l’uso di Facebook e Twitter incide sulla felicità degli utenti. I primi risultati saranno presentati all’ISA World Congress che si terrà a Yokohama la prossima estate. Ma prima daremo certamente qualche anticipazione su questo blog: stay tuned.

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