La rivoluzione digitale chiede a editori e giornalisti di indagare il rapporto tra notizie e mercato: quanto costa un’informazione tempestiva e accurata? E chi paga? E un giornale deve puntare all’educazione dei suoi lettori, imponendo un “dover leggere” pedagogico, o assecondare i loro gusti? Domandone irrisolte fin dai tempi di Gutenberg: la storia del Mondo non fornisce risposte, ma qualche indizio utile a farsi un’idea. Sotto questo nome un po’ generico, in perenne lotta contro i bilanci in rosso, per quasi un secolo si sono scritte pagine anche storiche del giornalismo italiano. Il Mondo era nato nel 1922 come quotidiano del pomeriggio fondato da Giovanni Amendola (padre di Giorgio, il dirigente comunista mentore di Giorgio Napolitano). Era un giornale “nittiano”, nel senso di Francesco Saverio Nitti, notizia in sé poco interessante se non si nota che significava fare vera e coraggiosa controinformazione sulle responsabilità del presidente del Consiglio Benito Mussolini nell’agguato mortale al deputato socialista Giacomo Matteotti. Il giornale arrivò a vendere 110 mila copie al giorno. Il successo commerciale non bastò, semmai accelerò la decisione del regime fascista di far uccidere Amendola, a botte. E alla morte del direttore seguirono le difficoltà economiche e la rapida chiusura.
Pannunzio, colto giornalista di Lucca trapiantato a Roma, riesumò la testata nel 1949 per farne un raffinato settimanale liberale di spirito radicale. Radunò un consesso di intellettuali che definiva “progressisti in politica, conservatori in economia, reazionari nel costume”. Era un piccolo mondo antico in cui i collaboratori scrivevano con la stilografica, oppure con la Olivetti se si sentivano tecnologici, e spedivano per posta.
Come non c’è bar dove non si sia una sera ubriacato Ernest Hemingway, non c’è stato per decenni un giornalista italiano che non vantasse di aver mosso i primi passi nella professione “al Mondo di Pannunzio”, che aveva più firme che lettori. Da una parte una specie di elenco telefonico che si fregiava dei nomi di Benedetto Croce e Luigi Einaudi, Ennio Flaiano e Antonio Cederna, Eugenio Scalfari e Vitaliano Brancati. Dall’altra parte lo sparuto drappello dei 30 mila affezionati lettori degli anni 50, schiacciati dall’esercito dei 900 mila della Domenica del Corriere, dei 700 mila di Oggi, dei 500 mila di Epoca. Numeri che oggi fanno impressione ricordandoci un’Italia che, anche senza tv, si teneva alla larga dall’informazione di qualità, mentre i giornali più raffinati sembravano tenersi senza rimpianti alla larga dagli italiani. E senza rimpianti evidenti due editori illuminati come Arrigo Olivetti e Nicolò Carandini (ricchissimo genero di Luigi Albertini, l’editore del Corriere della Sera espropriato dal fascismo) continuarono a stampare in perdita per pochi eletti.
Negli anni 70 la Rizzoli provò a rilanciare la testata come settimanale di attualità in formato Time, per seguire l’onda del mondadoriano Panorama e dell’Espresso di Scalfari e Carlo Caracciolo. Ma anche stavolta il responso dell’edicola fu infausto. Venne così la stagione trentennale del settimanale finanziario, che ha regalato al giornalismo italiano un’ultima svolta pionieristica, la conquista del territorio inesplorato dell’economia. Negli anni 80 della prima euforia finanziaria di massa fu il giornale delle notizie e dei retroscena degli affari, e anche una scuola nuova specie professionale dei giornalisti economici. Poi è iniziata la lunga agonia: prima la concorrenza serrata dei quotidiani, poi quella letale di Internet. L’ultimo periodo ha visto il Mondo venduto come allegato del Corriere della Sera, ed era evidente a tutti che si trattava dell’anticamera della chiusura. Il mondo è cambiato e per il Mondo non c’è più posto.
@giorgiomeletti