Non sono gli ‘ndranghetisti quelli che stupiscono il giudice, ma i politici scesi a patti con loro. Sono spregiudicati, non guardano alla “res publica”, ma solo ai voti ricevuti che ricambiano con la spartizione di cariche. Lo si legge nelle motivazioni del processo abbreviato “Colpo di coda”, concluso a Torino con la condanna di sei affiliati alle cosche di ‘ndrangheta di Chivasso (Torino) e Livorno Ferraris (Vercelli). L’indagine dei pm Monica Abbatecola e Roberto Sparagna della Procura di Torino, culminata con gli arresti del 25 ottobre 2012, aveva portato a galla la pesante infiltrazione mafiosa nelle elezioni amministrative di Chivasso del maggio 2011, elezioni su cui già l’indagine Minotauro dell’8 giugno 2011 aveva sollevato grossi interrogativi.
Se in questa maxi-operazione era stato arrestato un ex assessore ai lavori pubblici dell’Udc, Bruno Trunfio (condannato in primo grado, figlio del boss Pasquale, condannato a otto anni e otto mesi), la seconda operazione aveva portato in carcere Beniamino Gallone, ritenuto un affiliato alla cosca e condannato a sette anni e quattro mesi. Gallone, 34 anni, era un candidato dell’Udc, non aveva esperienza politica, ma per lui si prospettava un incarico da assessore. Era il frutto di un accordo tra ‘ndranghetisti e politici emerso nelle intercettazioni. Un fatto “sbalorditivo non solo per la spregiudicatezza dei protagonisti – scrive il giudice per l’udienza preliminare Roberta Vicini nelle motivazioni -, ma e soprattutto per la spregiudicatezza degli interlocutori che con loro sono scesi a patti”.
In particolare a stupire il magistrato è la scelta dei candidati, ma anche quella delle persone da piazzare nella società municipalizzata Chind spa. “Sorprende come i politici, lungi dallo scegliere i propri candidati in ragione delle comuni idee politiche, li individuino sulla base dei voti che sarebbero riusciti a portare e, soprattutto, accettando il rischio di mettere tra le proprie file persone che non solo di politica non ne sanno nulla, per loro stessa ammissione, ma che non hanno alcuna dimestichezza con la carica che vanno ad assumere”. Lo stesso ragionamento vale per la scelta dei componenti del cda dell’azienda municipalizzata Chind, “uomini scelti non già perché in possesso di requisiti idonei a farvi parte, ma in ragione dell’essere espressione di un contesto criminale che sempre più rivendica la propria quota minima di partecipazione”, si legge.
È il caso di Marino Nicola (imputato nel dibattimento in corso), consigliere dal 2003 al 2012 senza cariche politiche o esperienze nel settore industriale. Due sono i candidati, il segretario provinciale dell’Udc Massimo Striglia e il candidato sindaco del Pd Gianni De Mori, che alle elezioni del 2011 “si prestano all’accordo avente ad oggetto voti in cambio di posti all’interno del consiglio e della giunta comunale”. I calabresi sostengono l’Udc, che poi al ballottaggio convergono su De Mori, portandolo alla vittoria. Tra politici e presunti ‘ndranghetisti “si consolida un accordo che vede l’appoggio, attraverso la raccolta di voti, in cambio di un assessorato, che peraltro le vicende successive avrebbero indicato in quello al bilancio e finanze, di un posto da vice sindaco e altri tre o quattro incarichi”.
Tuttavia l’incarico non arriva perché, sottolinea il gup, De Mori è l’unico dei due che ha dei dubbi dopo l’arresto di Trunfio nell’operazione “Minotauro”: “Il nuovo sindaco comincia a spaventarsi e a volere paralizzare la situazione”. Teme un avviso di garanzia e, dopo alcune settimane, si dimette. Al contrario il segretario provinciale dell’Udc continua a parlare al telefono con Gallone e gli consiglia di aspettare che le acque si calmino. “Continua a cercare lo stesso tipo di aiuto da parte degli stessi uomini in occasione delle successive elezioni amministrative indette dopo le dimissioni”. Su Striglia gravano pure le pressioni degli indagati affinché lui mantenga la promessa degli incarichi, “a dimostrazione che nonostante il primo fosse il capolista, non comandava: la parola ultima spettava al gruppo dei calabresi”. La politica, scrive il giudice, non è più vista “come strumento per il governo della res pubblica, ma come strumento per la spartizione utilitaristica di tutto ciò che è pubblico”. La difesa, si apprende dalle motivazioni, aveva pure giocato la carta del “così fan tutti”, affermando che è “l’obiettivo di tutti coloro che fanno politica”, ma l’argomento è ritenuto grave dal gup.