La Fiat non c’è più. Dopo 115 anni di onorata storia dell’auto italiana, la Fabbrica Italiana Automobili Torino è diventata Fiat Chrysler Automobiles. Di made in Italy c’è rimasto poco o nulla: nel nome del nuovo vecchio gruppo non si rimanda più alla provenienza sabauda e la lingua di Dante è sostituita dall’inglese. E’ il mercato, bellezza: con il business e le strategie di alta finanza c’è poco da discutere. E allora: nuove esigenze di mercato, nuovo corso, nuovo logo, nuovo nome. Il cui acronimo (FCA), al netto di ogni coniugazione maligna e di declinazioni sessual-dialettali in stile Vernacoliere, dice molto più di ciò che Marchionne ha voluto comunicare annunciando lo spostamento della sede legale in Olanda e di quella fiscale in Inghilterra.
E allora: chiamare FCA la nuova vita della Fiat significa tagliare per sempre il cordone ombelicale (ogni riferimento a pratiche ostetriche è puramente casuale) con quell’Italia a cui la casa torinese dovrebbe almeno dire grazie, non fosse altro che per i massicci aiuti di Stato incassati dagli Agnelli nel corso degli anni. Impossibile, del resto, far finta che i creatori del logo e del nome non abbiano pensato alla facile ironia che la loro creatura avrebbe provocato nei malpensanti. Secondo chi scrive non si tratta di una più o meno involontaria caduta di stile, quanto di un effetto voluto e cercato. Per un motivo: la FCA non guarda all’Italia (dove quella sigla avrebbe solleticato gli istinti più pruriginosi di comici e gente comune), non guarda all’Europa (dove la pelosa battuta sarebbe circolata in modo inversamente proporzionale alle auto), ma scruta solo ed esclusivamente le nuove frontiere del business a quattro ruote (Usa e Sudamerica su tutte). E’ strategia di marketing: si può non essere d’accordo, ma i margini di ragionamento speculativo per i non addetti ai lavori sono pressoché nulli.
Diverso, invece, il modo con cui ciò che rimane del Lingotto (che potremmo da ora in poi chiamare Klondike, tanto sempre di oro si parla) ha cercato di indorare la pillola. Il comunicato stampa di presentazione del nuovo progetto e delle avveniristiche conquiste grafiche, infatti, è più comico dell’acronimo con vuoto a rendere. Neanche a Zelig. L’ex Fiat, del resto, parla di “progetto di branding che parte dalla definizione di un concept strategico distintivo sulla cui base vengono studiati il nome, il marchio, l’housestyle e l’intera Corporate Identity, che – udite udite – si caratterizza per la forza espressiva e la potenza evocativa delle sue forme essenziali e universali”. Forza espressiva e potenza evocativa? Negli States forse, perché per noi poveri e sfigati italiani di evocativo c’è solo l’innominabile assonanza fonetica.
Ma perché proprio quell’acronimo? La spiegazione che si legge nella nota stampa è fantastica: “Aiuta a stemperare i legami col passato (?, ndr), senza reciderne le radici (e la i di Italia e la t di Torino? ndr) e al tempo stesso contribuisce a definire l’approccio globale del Gruppo. Facile da comprendere, pronunciare e ricordare (e chi se lo scorda…ndr), è un nome adatto all’internazionalità del mercato contemporaneo (non lo avevamo mica capito, ndr)”. Tutto qui? Macché. Dopo aver spiegato che “nel marchio le tre lettere vivono all’interno di una raffigurazione geometrica ispirata alle forme essenziali della progettazione automobilistica”, i Marchionne boys ci fanno sapere, nell’ordine, che: “la F, generata dal quadrato simbolo di concretezza e solidità; la C, che nasce dal cerchio, archetipo della ruota e rappresentazione del movimento, dell’armonia e della continuità; e infine la A, derivata dal triangolo (e figurati se poteva mancare…ndr), che indica energia e perenne tensione evolutiva”. E mentre il lettore ancora pensa alla tensione evolutiva della FCA, si becca una conclusione illuminante: “Il marchio così progettato si presta a una straordinaria varietà di interpretazioni rappresentative (pure troppe…., ndr). Genera un linguaggio agile, moderno, capace di cambiare continuamente (cosa?, ndr) senza mai perdere la propria valenza identitaria”. Alzi la mano chi ha capito cosa volevano dire. Ma tant’è.
A proposito di “linguaggio agile, moderno e capace di cambiare continuamente senza mai perdere la propria valenza identitaria”, a questo punto giova ricordare quanto avvenne negli indimenticabili anni Ottanta, allorquando l’allora orgogliosa Fiat decise di sbarcare negli Usa. Risultato? Le auto non erano proprio impeccabili, gli americani (abituati a lusso e affidabilità) non la presero tanto bene e giocarono con l’acronimo del Lingotto. Fu così che oltreoceano Fiat diventò la sigla di uno sfottò passato alla storia: “Fix It Again Tony!”, ovvero “Riparala ancora Tony”, a sottolineare il fatto che le auto torinesi rimanevano più in officina che nel garage di casa. Sempre a proposito del rapporto conflittuale tra Fiat, nomi e acronimi, come dimenticare quanto accaduto a fine anni Settanta, quando il Lingotto decise di esportare nei paesi anglofoni la famosissima Ritmo. Che nel Regno Unito, però, furono costretti a chiamare ‘Strada’. Il motivo? Nello slang inglese, la traduzione di ‘Ritmo’ è ‘ciclo mestruale’… Non si capisce, ora, perché all’epoca cambiarono il nome della Ritmo per non urtare la sensibilità dei sudditi di sua maestà e oggi, invece, gli italiani debbano beccarsi la FCA e la sua “straordinaria varietà di interpretazioni rappresentative”.