Poteva succedere solo in Germania. E nonostante si tratti – almeno a mio avviso – di una cosa normale e forse addirittura dovuta, la guardiamo tutti con stupore e incredulità. È la storia della BMW e dei suoi dipendenti alle prese con la mail aziendale anche quando sono a casa, in viaggio o comunque fuori ufficio. È la “sbalorditiva” vicenda del riconoscimento di quel tempo alla tastiera o al display che viene riconosciuto (e che altro sarebbe?) come orario di lavoro. È la cronaca di un fatto ordinario che invece rimbomba come un miracolo epocale. Qualcuno mi sa dire come dovrebbero essere classificate contrattualmente le ore trascorse per “motivi di ufficio” al pc o sul telefonino a scapito di famiglia, hobby, relax? Pur cosciente della difficoltà di quantificazione del carico di lavoro e dell’intervallo orario necessario per assolverlo, ritengo un segno di civiltà il provvedimento dell’azienda automobilistica tedesca.
Purtroppo l’Italia è un Paese di furbi e qualunque “concessione” potrebbe rivelarsi fatale e innescare le più fantasiose interpretazioni. La nostra è una nazione troppo mediterranea per immaginare una clonazione di un simile modello di funzionamento. Ci sarebbe gente che preparerebbe prolisse dissertazioni alla scrivania del posto di lavoro per poi inoltrarle a mezzogiorno della domenica dal salotto di casa. Non mancherebbe nemmeno chi troverebbe nel copia e incolla un alleato per eutrofizzare la durata di qualunque attività. Per non parlare, poi, di chi in azienda risponde solo alle mail personali per lasciare quelle “ufficiali” a momenti diversi da quelli pattuiti con l’impresa o l’ente di appartenenza.
In realtà, a complicare l’adozione di una formula avveniristica del rapporto di lavoro interverrebbe anche la sconfortante ignoranza informatica che regna sovrana ovunque, isole comprese. Conosco un’infinità di dirigenti pubblici e privati, militari e civili che ancora oggi non adoperano la posta elettronica, delegano i collaboratori alla gestione delle email, esigono che i messaggi vengano stampati su carta (magari in più copie) per garantire il costante ritmo di disboscamento amazzonico, rifuggono la modernità e qualsivoglia cambiamento. Chi non è d’accordo ed è pronto ad enumerarmi vip e politici estremamente vivaci sotto il profilo digitale, mi dia il tempo di chiarire che esiste uno sterminato lato oscuro della antropologia manageriale. Purtroppo conosco anche io altrettanti personaggi che – un po’ come chi, dopo una infanzia di involontaria castità, scopre in età matura le donne e il loro fascino – si sono fatti incantare dalle tecnologie di più basso livello e passano giornate a twittare idiozie di caratura planetaria o a vivere gloriosi momenti sui social network. Anche qui, però, ho dovuto constatare che spesso (vuoi la poca pratica, vuoi l’evidente scarsità di idee) non esitano a ricorrere all’“aiutino” di collaboratori e portaborse e voglio sperare che non richiedano indennità, riconoscimenti economici o prebende di sorta. Perché mai, allora, dovrebbe fruire di un ritorno in busta paga l’ultimo dipendente inspiegabilmente alfabetizzato?
L’episodio – destinato a diventar regola e routine – sottolinea le differenze culturali e il diverso approccio sociale ed economico. Dalle nostre parti l’utilizzo del computer, della mail o ancor peggio di Internet inquieta anche il management più illuminato. Si pensa sempre che nell’indole del dipendente prevalga lo spirito ludico e la voglia di perdere tempo. La Rete, che potrebbe essere adoperata per arricchimento culturale o professionale oppure per svolgere attività di marketing, è guardata con sospetto e nessuno si impegna a reindirizzare i propri dipendenti verso un utilizzo più proficuo. E il discorso a proposito della posta elettronica si incupisce ancor più. Il datore di lavoro si arrovella sperando di controllarne l’uso (e magari il contenuto) e questa tendenza ha persino costretto il Garante della privacy a disciplinare il contesto e a porre freni all’invadente curiosità di qualche manager. Altro che incentivo a chi lavora da casa…
Da Il Fatto Quotidiano del 18 febbraio 2014