Enrico stai sereno: il governo Renzi riparte dalle fondamenta del governo Letta. Le uniche poltrone a prova di bomba sono state quelle di Alfano al Viminale, Lupi ai Trasporti e Lorenzin alla Salute. Cambia tutto il resto (qui le schede dei ministri), ma da qui a parlare di rivoluzione ci sarà da aspettare. Perfino la Farnesina viene sfilata a Emma Bonino e affidata a Federica Mogherini (Pd). Di più: a quanto risulta al Fatto Quotidiano il Guardasigilli designato sarebbe dovuto essere il magistrato anti-‘ndrangheta Nicola Gratteri (che scrive da anni di “riforme a costo zero” necessarie alla giustizia) e invece sarà l’ex ministro dell’Ambiente e ex responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando. “Colpo di scena” difficile da spiegare, anche se risuona ancora quella dichiarazione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al termine dell’incontro-fiume (quasi 3 ore) con il presidente incaricato Matteo Renzi: “Sgombriamo il campo da ricostruzioni a tinte forti – ha detto il capo dello Stato – il mio braccio non è stato sottoposto né l’altro ieri né oggi ad alcuna prova di ferro”. Frase risuonata come una excusatio non petita.
Il faccia a faccia più lungo di Napolitano con un premier
Il colloquio di Renzi al Quirinale ha registrato un record per la durata: quasi 3 ore. Ha superato Monti (due ore e mezza) e Letta (due ore e un quarto) che però guidavano governi “del presidente” -dov’erano quindi più probabili “consigli” del Colle sulla scelta dei ministri – e il triplo di Berlusconi e Prodi. Una durata che si apre a diverse interpretazioni (“Mezz’ora per la lista e il resto per la dettatura” dice la Meloni, “E’ nato il Napolitano III” aggiungono i Cinque Stelle). Il presidente della Repubblica si affretta a spiegare (senza che nessuno glielo chieda): “Le due ore e mezzo di oggi sono state due ore e mezzo non di incontro continuo, ma di lavoro parallelo. Renzi ha completato le consultazioni”. Poco dopo ha aggiunto: ”Il governo presenta così ampi caratteri di novità da spiegare ad abundantiam il perché dei tempi lunghi”. Infine si è giustificato: “Non c’è stato nessun braccio di ferro”.
Napolitano lancia Renzi: “D’accordo con l’obiettivo del 2018”
L’altro elemento di novità, nelle parole del presidente della Repubblica, è che sostiene la tesi e la volontà di Renzi: è un governo di legislatura e non più di servizio, di larghe intese, di soccorso, di emergenza, eccetera. Napolitano dice di essere d’accordo con l’obiettivo fissato da Renzi di un esecutivo che arrivi fino al 2018. “La mano sul fuoco in Italia non la possiamo mettere – ha aggiunto Napolitano – speriamo che tutto vada per il meglio”. E – giustificazione numero 4 – Renzi usa il concetto per spiegare la lunga chiacchierata del Colle: “Dovendo fare un governo di 4 anni, l’aver impegnato due ore e mezzo è un tempo di messa a punto ben investito”.
Renzi: “Non ci giochiamo la carriera, ma la faccia”
Renzi rilancia, consapevole del rischio: “Le confermo – risponde ai giornalisti – che in questa vicenda per come sono andate le cose molti di noi si giocano qualcosa di più della carriera, si giocano la faccia”. Secondo il presidente del Consiglio “il Paese non ha alternative, abbiamo la possibilità di realizzare le riforme che per anni non si sono fatte”. E il nuovo governo – pieno di facce nuove e di persone che non hanno mai fatto il ministro, come ha sottolineato più volte Napolitano – è un simbolo: “Se può fare il presidente del Consiglio uno come me sotto i 40 anni questo è anche un segnale per le tante ragazze e ragazzi che dicono che in Italia niente è possibile, non è così”. Chi si aspettava un governo Leopolda, con volti glamour e pieno di fedelissimi, è rimasto deluso, scrive l’Ansa. “E’ il governo modello sindaco d’Italia”, spiegano i renziani indicando in Delrio, sottosegretario che somiglia a un vicepremier, in Maria Carmela Lanzetta e nel presidente del Consiglio stesso l’idea di un esecutivo che punta a stare tra la gente ed i suoi problemi.
L’ombra lunga del governo Letta
Senza Gratteri l’antimafia nel governo c’è, ma sarà solo agli Affari Regionali: il nuovo ministro è Maria Carmela Lanzetta, che la scorsa estate si dimise da sindaco da Monasterace (Reggio Calabria) dopo le numerose minacce della criminalità organizzata. Alla fine, al momento, le novità del governo Renzi – a parte i volti – si limitano alla prima volta di un esecutivo formato per metà da donne, alla prima volta di una donna al ministero della Difesa (Roberta Pinotti, Pd) e all’età media relativamente bassa (48 anni). Di 16 ministri 8 sono del Pd, 3 del Nuovo Centrodestra, uno di Scelta Civica, uno dell’Udc e tre “tecnici” ai ministeri economici. All’Economia va Pier Carlo Padoan (presidente dell’Istat nominato un mese fa, ex capo economista dell’Ocse ed ex direttore della fondazione dalemiana Italianieuropei. Al Lavoro il presidente della Lega Cooperative Giuliano Poletti. Allo Sviluppo Economico l’imprenditrice, già nei Giovani industriali e della cosiddetta “Commissione trilaterale” Federica Guidi. Mancano, tra l’altro, la delega agli Affari europei oltre a quella per l’integrazione che è stata finora di Cecile Kyenge. All’Istruzione il terzo rettore consecutivo, la montiana Stefania Giannini.
Il secondo dato. Ci sono 9 conferme (su 18) rispetto al governo Letta: i tre del Nuovo Centrodestra e tre del Pd (Dario Franceschini, che passa dai Rapporti col Parlamento alla Cultura, lo stesso Orlando e Graziano Delrio, che dagli Affari regionali è il nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio in pectore). Vengono promossi dal ruolo di sottosegretario a quello di ministro Roberta Pinotti (Pd), Maurizio Martina (Pd, era allo Sviluppo e va all’Agricoltura) e Gianluca Galletti (Udc, era all’Istruzione e va all’Ambiente). Le new entry a Palazzo Chigi, se si include anche il presidente del Consiglio, sono nove. Ma il capo del governo se la vuole cavare con una battuta: “Ci sono elementi di continuità e ci sono elementi di discontinuità, ma questa non è la rubrica della settimana enigmistica ‘Scopri le differenze’. Quello che deve essere chiaro è che l’elemento principale di discontinuità è la concretezza”.
La lista dei ministri (qui le schede)
Questi i 16 ministri del governo Renzi. Ministeri con portafoglio: Esteri, Federica Mogherini; Interno, Angelino Alfano; Giustizia, Andrea Orlando; Difesa, Roberta Pinotti; Economia e Finanze, Pier Carlo Padoan; Sviluppo Economico, Federica Guidi; Politiche agricole, Maurizio Martina; Ambiente, Gian Luca Galletti; Trasporti e Infrastrutture, Maurizio Lupi; Lavoro, Giuliano Poletti; Istruzione, Stefania Giannini; Beni e attività culturali, Dario Franceschini; Salute, Beatrice Lorenzin. Ministeri senza portafoglio: Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi; Per la semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia. Affari Regionali, Maria Carmela Lanzetta. Nel ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio nella prima riunione del governo verrà proposto Graziano Delrio.
I numeri del Senato: 176 per Renzi. Sulla carta
Gli unici numeri che contano ora sono quelli del Senato, dove Renzi – dopo il giuramento di domani (21 febbraio) al Quirinale alle 11,30 – chiederà il primo voto di fiducia. Pippo Civati continua a minacciare il voto contrario: “Fanno di tutto per farsi votare di no“. E chiama il capo del governo “Matteo Letta” e l’operazione del segretario democratico “un rimpasto”. Se si prendono in considerazione le posizioni ufficiali dei diversi gruppi parlamentari, il nuovo esecutivo non dovrebbe avere problemi di sorta; ma al loro interno diversi senatori hanno manifestato dissensi. L’assemblea di Palazzo Madama conta 320 componenti e cioè i 315 eletti nonché i cinque senatori a vita (Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti, Renzo Piano, Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo). Quindi la maggioranza assoluta ammonta a 161 voti, anche se per ottenere la fiducia è sufficiente la maggioranza dei votanti. Renzi ne avrebbe 176: Pd, Ncd, Scelta Civica, Popolari per l’Italia e il gruppo delle Autonomie linguistiche più quelli di Ciampi (che però manca dal Senato da molto tempo per le precarie condizioni di salute) e Piano, che siedono nel gruppo Misto, e forse quelli di tre senatori espulsi da M5s che hanno già votato la fiducia al governo Letta (Fabiola Anitori, Paola De Pin e Marino Mastrangeli). Ma le cose potrebbero complicarsi per alcuni “mal di pancia” nella sinistra del Pd. Infatti sei senatori “civatiani”, cioè che fanno riferimento a Pippo Civati, hanno minacciato di non votare la fiducia: Corradino Mineo, Walter Tocci, Lorenza Ricchiuti, Donatella Albano, Felice Casson e Sergio Lo Giudice. Domenica 23 a Bologna Civati ha convocato un’assemblea aperta dove discutere, ma ha egli stesso ha ammesso che un “no” alla fiducia sarebbe un “fatto grave” che porterebbe all’uscita dal Pd. Un piccolo soccorso, in caso di cedimento di voti a sinistra, potrebbe venire sul lato opposto e dal gruppo Gal (Grandi autonomie e Libertà): “Decideremo che atteggiamento tenere dopo aver letto e ascoltato l’esposizione del presidente del Consiglio in Aula”, ha detto il capogruppo Mario Ferrara. L’Italia appesa di nuovo ai “responsabili”.