La notizia è ormai nota: l’Associazione Nazionale Stampa online (Anso), la Federazione dei Media digitali indipendenti (Femi) e Open Media Coalition, hanno chiesto ai giudici del Tar Lazio di decidere se il Regolamento sulla tutela del diritto d’autore online varato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è o meno legittimo.
Dopo anni di discussioni, confronti pubblici, talvolta scontri e polemiche, a questo punto, toccherà, quindi, ai Giudici amministrativi e, forse, anche a quelli europei della Corte di Giustizia e della Corte dei diritti dell’uomo dire l’ultima parola.
In democrazia, d’altra parte, funziona così: al dibattito ed al confronto – meglio se trasparente, aperto e leale – seguono le decisioni di chi può o, addirittura, deve assumerle e, poi, se permangono incertezze da parte di taluno, la parola passa ai Giudici.
E’, tuttavia, facile prevedere che, da domani, il ricorso di quanti – tra gli imprenditori del digitale, i consumatori e la società civile – hanno avvertito l’esigenza di domandare ai Giudici di pronunciarsi sulla decisione assunta dall’Authority, verrà bollato ed etichettato come un’iniziativa a difesa dei ladri di proprietà intellettuale, i cosiddetti “pirati”.
Naturalmente non è così e nessuno dei ricorrenti pensa che sia giusto lasciare che i “pirati” saccheggino l’altrui proprietà intellettuale mentre le Autorità competenti restano a guardare impotenti.
E’ una sola, infatti, la preoccupazione che attraversa longitudinalmente il ricorso: in una società democratica non c’è spazio per iniziative – non importa se volte a tutelare il diritto d’autore o qualsivoglia altro diritto – che tradiscano il principio di legalità, violando ripetutamente la costituzione ed i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino.
La guerra ai pirati – anche online – deve essere combattuta dallo Stato come dai titolari dei diritti, rimanendo nel solco tracciato dalle leggi e rifuggendo la facile tentazione di fare di più, solo perché tecnologicamente possibile.
Il Regolamento – magari per le più nobili delle ragioni possibili ancorché in assenza di qualsivoglia studio scientifico sull’impatto della pirateria sui mercati e sull’industria è impossibile dirsene certi – abbandona ripetutamente il binario democratico della legalità, ponendosi su quello veloce del tecnicamente possibile.
Non è del diritto dei pirati a rubare che si discuterà nei prossimi mesi – e forse anni – davanti ai Giudici ma della necessaria tutela, anche online, dei diritti fondamentali degli imprenditori e dei cittadini e, soprattutto, della insostenibilità democratica di certe “scorciatoie” che, purtroppo, c’è il rischio, si inizino a percorrere con sempre maggiore frequenza.
Se passa il principio che sta alla base del Regolamento Agcom secondo il quale un’Autorità amministrativa, senza alcuna delega nella legge, può arrogarsi il diritto di riscrivere in autonomia le regole di una materia che il Parlamento ha già disciplinato in maniera diversa e, poi, di applicarle in modo altrettanto autonomo, trasformando, per l’occasione, gli intermediari della comunicazione – gli internet services provider – in sceriffi della Rete, allora dobbiamo aspettarci, molto presto, una pioggia di analoghi regolamenti in materia di cyberbullismo, hatespeech online, contraffazione di marchi e brevetti, diffamazione ed ogni altro genere di illecito sin qui registrato nello spazio pubblico telematico.
E’, naturalmente, una tentazione irresistibile specie in una stagione politica in cui Parlamento e Governo procedono a rilento nell’occuparsi di scrivere questo genere di leggi e la Giustizia – quella civile come quella penale – arranca lenta e, talvolta, inefficiente. Basterebbero, però, una manciata di mesi e ci ritroveremmo l’unico Paese al mondo con una “lex specialis” per le cose della Rete, scritta fuori dal Parlamento, da una serie di Autorità amministrative ed applicata non dai Giudici ma da funzionari e membri di queste Authority.
Significherebbe la fine dello Stato di diritto online.
E, infatti, sono proprio questi i motivi alla base del ricorso proposto davanti ai giudici amministrativi e della battaglia di civiltà giuridica appena iniziata: Agcom non ha il potere di dettare regole in materia di diritto d’autore online che, per di più, mirano a riscrivere leggi che già ci sono e, soprattutto, a distrarre imprenditori e privati cittadini dal loro “giudice naturale” e, ancor meno, Agcom può esporre a rischi seri e concreti i diritti fondamentali dei cittadini ad un giusto processo ed alla libertà di comunicazione nello spazio pubblico telematico.
Guai a pensare di avere certamente ragione e guai a pensare che Agcom abbia certamente torto ma è davvero difficile scorrere le previsioni del Regolamento e non avvertire la sensazione di trovarsi al cospetto di regole forse accettabili in un contesto emergenziale ed in tempo di guerra ma incompatibili con la Costituzione della Repubblica in tempo di pace.
Non c’è però dubbio che lasciare che siano i Giudici – quelli nazionali o, addirittura, quelli europei – a dire se un’Autorità amministrativa indipendente ha violato o meno la legge, la Costituzione e la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, per quanto democraticamente “normale”, costituisca un po’ una sconfitta per tutti.
Dubbi di questo genere, infatti, sull’azione di un’Authority non dovrebbero esisterne.
Varrebbe, allora, forse la pena che l’Agcom sospendesse l’entrata in vigore del proprio Regolamento, non solo e non tanto nell’attesa delle decisione dei Giudici ma soprattutto per aprire un tavolo attorno al quale, come ha già autorevolmente proposto qualcuno, valutare se e come gli stessi obiettivi che ne hanno guidato la mano nella redazione del Regolamento possono essere raggiunti e perseguiti attraverso un codice di autodisciplina.
Questa sì, sarebbe una vittoria democratica per tutti.
(Dichiarazione di trasparenza: sono uno dei legali delle associazioni ricorrenti. Sono, quindi, impegnato in prima persona nella vicenda)