Ogni disco di Beck fa storia a sé. Sei anni sono passati dal suo ultimo lavoro, quel “Modern guilty” che aveva lasciato freddi sia il pubblico che la critica. Nonostante non sia rimasto con le mani in mano (ha realizzato progetti di colonne sonore e videoarte, nonché spartiti che i fan hanno musicato), tutti lo aspettavano alla prova di un nuovo Lp. Esce il 25 febbraio “Morning phase“, su etichetta Capitol, suo dodicesimo lavoro ascoltabile in streaming sul sito di Npr. Beck viene dall’America profonda e, di questa, ne incarna completamente l’anima. Figlio di un musicista bluegrass e di una attrice della gloriosa Factory di Andy Wharol, nipote di un esponente del movimento Fluxus, cresce nella Los Angeles a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Dopo il trasferimento a New York e i primi concerti nei club della scena cosiddetta “anti-folk”, arriva al successo nel 1993 con una delle hit più immediate di sempre – “Loser” – cantando in maniera scanzonata il suo sentirsi perdente.
L’esordio – “Mellow gold” – rappresenta una pietra miliare dell’indie-rock degli anni ’90. Da una parte il richiamo alla tradizione di Bob Dylan e del blues degli anni ’60, dall’altro la spinta verso la modernità nell’uso di sprazzi elettronici immersi in uno spirito -quello lo-fi– pienamente contemporaneo, riuscendo a mischiare il tutto con inserti hip-hop e residui funky. Il successo di quell’album – assieme a “Odelay” – rimane nella sua discografia probabilmente insuperato.
Cosa c’è quindi di quel Beck, vent’anni dopo? “Morning phase” vive di episodi molto differenti dagli esordi. Qui scompare gran parte del suo estro schizofrenico e, non diversamente dal suo album del 2002 “Sea change”, c’è un richiamo molto forte al country, a Neil Young, ai Buffalo Springfield, a Daniel Johnston. Viene evitata qualsiasi spinta elettrica o psichedelica, in favore di suoni decisamente morbidi. La fanno da padrone le chitarre acustiche, melodie languide e invecchiate benissimo, complice anche un eccellente lavoro in fase di mastering.
E’ un album che, più di ogni altra cosa licenziata da Beck, vive del respiro della mittle-America. Non è certo un caso che “Morning phase” sia stato concepito nella capitale del country – Nashville – e che sia presente un costante equilibrio tra lussureggianti orchestrazioni folk e arido spirito mid-east. Tracce come “Heart is a drum” o “Blue moon” mostrano il lato maturo del biondo losangelino, senza l’irrequietezza che aveva fatto la fortuna degli esordi, qui si respira l’aria del tempo che passa. “Unforgiven” strizza l’occhio al brit-pop più morbido, tra i Blur di “The universal” e gli Oasis di “Stop crying your heart out”. E’ l’album in cui Beck scopre la sua anima matura, non rimanendo intrappolato nell’autoreferenzialità, ma rileggendo in maniera sorprendente un genere spesso eccessivamente legato agli stilemi di chi l’ha fatto grande.