Che cosa resta di Hugo Chávez Frías, ad un anno esatto dalla sua morte? Una vera risposta a questo elementare quesito implica, ovviamente, analisi approfondite e complesse. Ma volendo usare una sola parola, o meglio, dovendo selezionare il termine – uno soltanto – che più efficacemente riassume, come il titolo d’un libro, il senso di quelle analisi, io credo che “menzogna” sia di gran lunga la più adeguata delle scelte possibili.
Perché menzogna? Intanto perché il più visibile (direi ineludibile) lascito di Hugo Chávez è un culto. O, più esattamente: è la più recente e caricaturale versione d’un fenomeno che – tristemente ricorrente nella storia dell’uomo e noto come “culto della personalità” – sempre è senza eccezioni stato, laddove ha preso piede, il punto d’arrivo (o di partenza) d’una grande menzogna. Chávez ha, come tutti i suoi predecessori, lasciato una liturgia di Stato (la liturgia di se medesimo) che – sebbene non priva d’una spinta di spontanea devozione popolare – è diventato, come in ogni precedente caso, un sempre più desolante esercizio di servilismo politico e d’iperbole linguistica. Chávez è oggi, per quella liturgia, il “comandante supremo ed eterno“. E tale resterà fino a quando gli zelanti guardiani del culto non riusciranno a trovare, oltre gli umani limiti del dizionario, parole e suoni in grado di trascendere l’ancor troppo terrena eco di quegli aggettivi.
Chávez è il “gigante“, il “redentore” d’una patria immaginaria, perché prodotto d’una storia rivisitata e stravolta al servizio del culto. Ahora tenemos patria, adesso abbiamo una patria, recita quello che è forse la più frequente delle filastrocche del catechismo che il regime ha trasformato in pubblico cerimoniale. E proprio questa – la falsificazione della storia, immancabile compagna del culto della personalità – è la seconda e più evidente menzogna che il Venezuela eredita da Chávez.
Tutto il resto – tutte le altre frottole di regime, alcune delle quali mi sono premurato di descrivere, nella loro grottesca sfacciataggine, in precedenti post – discendono da questa radice, biforcuta come la lingua dei serpenti e come quella del “visi pallidi” dei vecchi film western. La stessa morte di Chávez, esattamente un anno fa, non fu in fondo che questo: un unico momento di verità – con tutto il suo carico d’umano dolore – nel mezzo d’una lunga menzogna. Tanto lunga che, in effetti, ancora continua.
Nessuno dubita, infatti, che il “supremo” sia morto davvero (anche se, come vuole lo slogan, il comandante ‘vive e la lotta continua’). Ma come Chávez sia morto, quando e come sia morto, quale sia stato il tipo di cancro che l’ha colpito, è una verità rimasta patrimonio d’un molto ristretto manipolo di gerarchi, gli unici che, negli ultimi tre mesi di vita del comandante, abbiano avuto accesso a quel che di lui restava. Gli stessi gerarchi che – guidati dal Nicolás Maduro, l’erede designato, nonché figlio ed apostolo – non hanno poi esitato a comunicare al mondo come quella morte, le cui cause ed i cui sviluppi continuavano (e continuano) ad essere un segreto di Stato, fosse stata senz’ombra di dubbio prodotto d’una malattia ‘inoculata’ dall’Impero. Le prove del crimine? Verranno a tempo debito presentate – aveva solennemente assicurato Maduro – da un’apposita commissione medica che oggi, un anno dopo, ancora non è stata convocata. E che, ovviamente, mai lo sarà, perché la sua convocazione non potrebbe rappresentare – data l’improponibilità scientifica della “inoculazione” – che la fine della menzogna.
È la menzogna la vera eredità di Chávez. La menzogna d’un regime che agita la costante minaccia d’un golpe immaginario – e che golpe considera, contro il dettato costituzionale, ogni forma di protesta – nel contempo esaltando come atto di fondazione del nuovo Stato il vero e “classicissimo” golpe militare (il cui anniversario, chiamato “giorno della dignità” è diventato festa nazionale) che Hugo Chávez organizzò nel 1992. La menzogna d’una democrazia basata su una Costituzione (quella approvata per referendum nel 1999) ancor oggi sventolata dai seguaci dell’eterno con la stessa apparente passione con cui, a suo tempo, le guardie rosse agitavano, nella Cina della Rivoluzione Culturale, il libretto con le massime di Mao.
Sventolata, esaltata come la migliore del mondo e sistematicamente violata, anzi, stuprata in tutte le sue parti, articolo dopo articolo. La neutralità delle Forze Armate? Scomparsa. L’indipendenza del potere giudiziario? Una burla. Il controllo parlamentare sulla spesa pubblica? Un cumulo di macerie sulle quali il “supremo” ha edificato un sistema di potere basato sul più assoluto ed arbitrario controllo della rendita petrolifera. O, ancor più esattamente: un regime ibrido, mezza democrazia e mezza dittatura, nel quale l’ago della bilancia tende sempre più a spostarsi verso la seconda.
Di vero, in Venezuela, un anno dopo la scomparsa del comandante supremo ed eterno, non sembra esserci che questo: un paese spaccato in due e precipitato – cosa mai avvenuta prima in Venezuela – in una crisi economica profonda nel pieno d’un boom petrolifero, anzi del più colossale e prolungato boom petrolifero della sua storia. Un Paese tra i più insicuri e violenti del mondo, istituzionalmente fragilissimo e corrotto, più che mai dipendente dal petrolio e, nel contempo, intento ad uccidere la sua gallina dalle uova d’oro, storica fonte della sua ricchezza e, insieme, delle sue miserie. Qualcuno – analizzando dati che registrano, come in tutta l’America Latina, un’accentuata riduzione degli indici di povertà – crede di vedere in tutto questo una “rivoluzione”. Io, per quanto sforzi faccia, non riesco a scorgere, oltre le menzogne, che la tragica realtà d’una occasione perduta.
Massimo Cavallini
Giornalista
Mondo - 5 Marzo 2014
Il Venezuela a un anno dalla morte di Chávez
Che cosa resta di Hugo Chávez Frías, ad un anno esatto dalla sua morte? Una vera risposta a questo elementare quesito implica, ovviamente, analisi approfondite e complesse. Ma volendo usare una sola parola, o meglio, dovendo selezionare il termine – uno soltanto – che più efficacemente riassume, come il titolo d’un libro, il senso di quelle analisi, io credo che “menzogna” sia di gran lunga la più adeguata delle scelte possibili.
Perché menzogna? Intanto perché il più visibile (direi ineludibile) lascito di Hugo Chávez è un culto. O, più esattamente: è la più recente e caricaturale versione d’un fenomeno che – tristemente ricorrente nella storia dell’uomo e noto come “culto della personalità” – sempre è senza eccezioni stato, laddove ha preso piede, il punto d’arrivo (o di partenza) d’una grande menzogna. Chávez ha, come tutti i suoi predecessori, lasciato una liturgia di Stato (la liturgia di se medesimo) che – sebbene non priva d’una spinta di spontanea devozione popolare – è diventato, come in ogni precedente caso, un sempre più desolante esercizio di servilismo politico e d’iperbole linguistica. Chávez è oggi, per quella liturgia, il “comandante supremo ed eterno“. E tale resterà fino a quando gli zelanti guardiani del culto non riusciranno a trovare, oltre gli umani limiti del dizionario, parole e suoni in grado di trascendere l’ancor troppo terrena eco di quegli aggettivi.
Chávez è il “gigante“, il “redentore” d’una patria immaginaria, perché prodotto d’una storia rivisitata e stravolta al servizio del culto. Ahora tenemos patria, adesso abbiamo una patria, recita quello che è forse la più frequente delle filastrocche del catechismo che il regime ha trasformato in pubblico cerimoniale. E proprio questa – la falsificazione della storia, immancabile compagna del culto della personalità – è la seconda e più evidente menzogna che il Venezuela eredita da Chávez.
Tutto il resto – tutte le altre frottole di regime, alcune delle quali mi sono premurato di descrivere, nella loro grottesca sfacciataggine, in precedenti post – discendono da questa radice, biforcuta come la lingua dei serpenti e come quella del “visi pallidi” dei vecchi film western. La stessa morte di Chávez, esattamente un anno fa, non fu in fondo che questo: un unico momento di verità – con tutto il suo carico d’umano dolore – nel mezzo d’una lunga menzogna. Tanto lunga che, in effetti, ancora continua.
Nessuno dubita, infatti, che il “supremo” sia morto davvero (anche se, come vuole lo slogan, il comandante ‘vive e la lotta continua’). Ma come Chávez sia morto, quando e come sia morto, quale sia stato il tipo di cancro che l’ha colpito, è una verità rimasta patrimonio d’un molto ristretto manipolo di gerarchi, gli unici che, negli ultimi tre mesi di vita del comandante, abbiano avuto accesso a quel che di lui restava. Gli stessi gerarchi che – guidati dal Nicolás Maduro, l’erede designato, nonché figlio ed apostolo – non hanno poi esitato a comunicare al mondo come quella morte, le cui cause ed i cui sviluppi continuavano (e continuano) ad essere un segreto di Stato, fosse stata senz’ombra di dubbio prodotto d’una malattia ‘inoculata’ dall’Impero. Le prove del crimine? Verranno a tempo debito presentate – aveva solennemente assicurato Maduro – da un’apposita commissione medica che oggi, un anno dopo, ancora non è stata convocata. E che, ovviamente, mai lo sarà, perché la sua convocazione non potrebbe rappresentare – data l’improponibilità scientifica della “inoculazione” – che la fine della menzogna.
È la menzogna la vera eredità di Chávez. La menzogna d’un regime che agita la costante minaccia d’un golpe immaginario – e che golpe considera, contro il dettato costituzionale, ogni forma di protesta – nel contempo esaltando come atto di fondazione del nuovo Stato il vero e “classicissimo” golpe militare (il cui anniversario, chiamato “giorno della dignità” è diventato festa nazionale) che Hugo Chávez organizzò nel 1992. La menzogna d’una democrazia basata su una Costituzione (quella approvata per referendum nel 1999) ancor oggi sventolata dai seguaci dell’eterno con la stessa apparente passione con cui, a suo tempo, le guardie rosse agitavano, nella Cina della Rivoluzione Culturale, il libretto con le massime di Mao.
Sventolata, esaltata come la migliore del mondo e sistematicamente violata, anzi, stuprata in tutte le sue parti, articolo dopo articolo. La neutralità delle Forze Armate? Scomparsa. L’indipendenza del potere giudiziario? Una burla. Il controllo parlamentare sulla spesa pubblica? Un cumulo di macerie sulle quali il “supremo” ha edificato un sistema di potere basato sul più assoluto ed arbitrario controllo della rendita petrolifera. O, ancor più esattamente: un regime ibrido, mezza democrazia e mezza dittatura, nel quale l’ago della bilancia tende sempre più a spostarsi verso la seconda.
Di vero, in Venezuela, un anno dopo la scomparsa del comandante supremo ed eterno, non sembra esserci che questo: un paese spaccato in due e precipitato – cosa mai avvenuta prima in Venezuela – in una crisi economica profonda nel pieno d’un boom petrolifero, anzi del più colossale e prolungato boom petrolifero della sua storia. Un Paese tra i più insicuri e violenti del mondo, istituzionalmente fragilissimo e corrotto, più che mai dipendente dal petrolio e, nel contempo, intento ad uccidere la sua gallina dalle uova d’oro, storica fonte della sua ricchezza e, insieme, delle sue miserie. Qualcuno – analizzando dati che registrano, come in tutta l’America Latina, un’accentuata riduzione degli indici di povertà – crede di vedere in tutto questo una “rivoluzione”. Io, per quanto sforzi faccia, non riesco a scorgere, oltre le menzogne, che la tragica realtà d’una occasione perduta.
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Mosca, 23 feb. (Adnkronos/Afp) - "Il dialogo tra due presidenti davvero straordinari è promettente. È importante che nulla ostacoli l'attuazione della loro volontà politica". Lo ha dichiarato il portavoce della presidenza russa Dmitri Peskov in un'intervista alla televisione, parlando della fermezza degli Stati Uniti nei confronti di Kiev e sulle dichiarazioni ostili di Trump nei confronti del presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Roma, 23 feb. - (Adnkronos) - Resterà per sempre il cantante di "Bandiera gialla", canzone simbolo della musica leggera degli anni '60: Gianni Pettenati è morto nella sua casa di Albenga (Savona) all'età di 79 anni. L'annuncio della scomparsa, avvenuta nella notte, è stato dato con un post sui social dalla figlia Maria Laura: "Nella propria casa, come voleva lui, con i suoi affetti vicino, con l'amore dei suoi figli Maria Laura, Samuela e Gianlorenzo e l'adorato gatto Cipria, dopo una lunga ed estenuante malattia, ci ha lasciato papà. Non abbiamo mai smesso di amarti. Ti abbracciamo forte. Le esequie si terranno in forma strettamente riservata".
Nato a Piacenza il 29 ottobre 1945, Gianni Pettenati debutta nel 1965, vincendo il Festival di Bellaria ed entra a far parte del gruppo degli Juniors e nel 1966, accompagnato dallo stesso gruppo, incide il suo primo 45 giri, una cover di "Like a Rolling Stone" di Bob Dylan intitolata "Come una pietra che rotola", seguita da quello che rimane il suo maggiore successo "Bandiera gialla", versione italiana di "The pied piper" incisa lo stesso anno da Patty Pravo (in lingua originale, come lato B del singolo "Ragazzo Triste" per la promozione del locale Piper Club di Roma, diventando il brano simbolo della famosa discoteca), diventata un evergreen, immancabile quando si gioca al karaoke o nelle serate revival nelle discoteche e nelle feste. Il 45 giri successivo, nuovamente con gli Juniors, è "Il superuomo" (cover di "Sunshine superman" di Donovan), mentre sul lato B del disco compare "Puoi farmi piangere" (cover di "I put a spell on you" di Screamin' Jay Hawkins, incisa con l'arrangiamento della versione di Alan Price), con il testo italiano di Mogol. Sempre nel 1967 Pettenati partecipa al Festival di Sanremo con "La rivoluzione", a Un disco per l'estate con "Io credo in te", al Cantagiro con "Un cavallo e una testa" (scritta da Paolo Conte) e a Scala Reale sul Canale Nazionale della Rai in squadra con il vincitore di quell'anno, Claudio Villa, e con Iva Zanicchi, battendo Gianni Morandi, Sandie Shaw e Dino.
Nel 1968 insieme ad Antoine entra in finale al festival di Sanremo con "La tramontana", brano molto fortunato che il cantante piacentino ha sempre riproposto nei suoi concerti. Seguono altri successi come "Caldo caldo", "Cin cin", "I tuoi capricci" e collaborazioni artistiche con diversi autori della canzone italiana. Critico musicale, Pettenati è autore di diversi libri sulla storia della musica leggera italiana tra cui "Quelli eran giorni - 30 anni di canzoni italiane" (Ricordi, con Red Ronnie); "Gli anni '60 in America" (Edizioni Virgilio); "Mina come sono" (Edizioni Virgilio); "Io Renato Zero" (Edizioni Virgilio); "Alice se ne va" (Edizioni Asefi). Nel 2018 era stata concessa a Pettenati la legge Bacchelli che prevede un assegno vitalizio di 24mila euro annui a favore di cittadini illustri, con meriti in diversi campi, che versino in stato di particolare necessità. (di Paolo Martini)
Parigi, 23 feb. (Adnkronos/Afp) - Tre persone, oltre al presunto autore, sono state arrestate per l'attacco mortale di ieri a Mulhouse, nell'est della Francia. Lo ha reso noto la Procura nazionale antiterrorismo. Il principale sospettato, nato in Algeria 37 anni fa, è stato arrestato poco dopo l'aggressione con coltello che ha ucciso un portoghese di 69 anni e ferito almeno tre agenti della polizia municipale.
Mosca, 23 feb. (Adnkronos/Afp) - "Il destino ha voluto così, Dio ha voluto così, se così posso dire. Una missione tanto difficile quanto onorevole - difendere la Russia - è stata posta sulle nostre e vostre spalle unite". Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin ai soldati che hanno combattuto in Ucraina, durante una cerimonia organizzata al Cremlino in occasione della Giornata dei Difensori della Patria.
Kiev, 23 feb. (Adnkronos/Afp) - Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha invocato l'unità degli Stati Uniti e dell'Europa per giungere a una "pace duratura", alla vigilia del terzo anniversario dell'invasione russa e sulla scia della svolta favorevole a Mosca presa da Donald Trump.
"Dobbiamo fare del nostro meglio per una pace duratura e giusta per l'Ucraina. Ciò è possibile con l'unità di tutti i partner: ci vuole la forza di tutta l'Europa, la forza dell'America, la forza di tutti coloro che vogliono una pace duratura", ha scritto Zelensky su Telegram.
Parigi, 23 feb. (Adnkronos/Afp) - Tre persone, oltre al presunto autore, sono state arrestate per l'attacco mortale di ieri a Mulhouse, nell'est della Francia. Lo ha reso noto la Procura nazionale antiterrorismo. Il principale sospettato, nato in Algeria 37 anni fa, è stato arrestato poco dopo l'aggressione con coltello che ha ucciso un portoghese di 69 anni e ferito almeno tre agenti di polizia municipale.
Beirut, 23 feb. (Adnkronos/Afp) - Decine di migliaia di persone si sono radunate per partecipare ai funerali di Hassan Nasrallah, in uno stadio alla periferia di Beirut. Molte le bandiere di Hezbollah e i ritratti del leader assassinato che ha guidato il movimento libanese, sostenuto dall'Iran, per oltre tre decenni. Uomini, donne e bambini provenienti dal Libano e da altri luoghi hanno camminato a piedi nel freddo pungente per raggiungere il luogo della cerimonia, ritardata per motivi di sicurezza dopo la morte di Nasrallah avvenuta in un massiccio attacco israeliano al bastione di Hezbollah a Beirut sud a settembre.
Mentre la folla si radunava, i media statali libanesi hanno riferito di attacchi israeliani in alcune zone del Libano meridionale, tra cui una località a circa 20 chilometri dal confine. L'esercito israeliano ha affermato di aver colpito nel Libano meridionale "diversi lanciarazzi che rappresentavano una minaccia imminente per i civili israeliani". Ritratti giganti di Nasrallah e di Hashem Safieddine (il successore designato di Nasrallah, ucciso in un altro attacco aereo israeliano prima che potesse assumere l'incarico) sono stati affissi sui muri e sui ponti nella parte sud di Beirut. Uno è stata appeso anche sopra un palco eretto sul campo del gremito Camille Chamoun Sports City Stadium, alla periferia della capitale, dove si svolgeranno i funerali dei due leader.
Lo stadio ha una capienza di circa 50mila persone, ma gli organizzatori di Hezbollah hanno installato decine di migliaia di posti a sedere extra sul campo e all'esterno, dove i partecipanti potranno seguire la cerimonia su uno schermo gigante. Hezbollah ha invitato alla cerimonia alti funzionari libanesi, alla presenza del presidente del parlamento iraniano, Mohammad Bagher Ghalibaf, e del ministro degli Esteri Abbas Araghchi. Quest'ultimo, in un discorso da Beirut, ha descritto i leader assassinati come "due eroi della resistenza" e ha giurato che "il cammino della resistenza continuerà".