Pochi giorni fa la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha deciso di non procedere all’estradizione in Italia di Domenico Rancadore, condannato in Italia nel 1999 per associazione mafiosa ed estorsione e arrestato lo scorso agosto dalla polizia inglese su indicazione di quella italiana, dopo 20 anni di latitanza.

“Una decisione insolita” ha commentato l’ex avvocato Clive Coleman, attualmente corrispondente giudiziario per BBC News “perché è molto difficile opporsi con successo ad una richiesta di estradizione quando l’interessato è detenuto in forza di un mandato d’arresto europeo, una procedura semplificata che si basa sulla presunzione che in tutti gli stati membri il trattamento riservato a imputati e condannati offra il medesimo livello qualitativo”.

Infatti Howard Riddle, il magistrato che si è occupato del caso, aveva già  predisposto una bozza di decisione che rispondeva positivamente alla richiesta dell’Italia. Improvvisamente ha però dovuto modificarla in senso opposto perché vincolato da una recentissima sentenza pronunciata dal tribunale amministrativo della High Court of Justice, una corte di rango superiore, nel caso di Hayle Abdi Badre, un cittadino somalo per cui non è stata concessa l’estradizione in Italia a causa del rischio di subire trattamenti inumani e degradanti nelle nostre carceri (violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’UomoProibizione della tortura – Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti).

Il riconoscimento del rischio è avvenuto con riferimento alla sentenza pilota della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013 (Causa Torreggiani e altri c. Italia).

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo può infatti avviare, in base all’articolo 61 del suo regolamento, un procedimento pilota e pronunciare una sentenza pilota quando “i fatti all’origine d’un ricorso presentato davanti ad essa rivelano l’esistenza, nello Stato contraente interessato, d’un problema strutturale o sistemico o di un’altra simile disfunzione che ha dato luogo alla presentazione di altri analoghi ricorsi”.

La Corte aveva dunque esaminato i ricorsi di sette detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza in cui ogni cella era occupata da tre persone, ognuna delle quali aveva a propria disposizione meno di tre metri quadrati come proprio spazio personale, e aveva concluso per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione indicando le misure generali da adottare per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento delle carceri.

I giudici inglesi, McCombe e Hickinbottom, di fronte al ricorso presentato da Hayle Abdi Badre contro la richiesta di estradizione in Italia, si sono chiesti innanzitutto se il problema del sovraffollamento delle carceri italiane fosse stato risolto dopo la sentenza della Corte Europea del gennaio 2013 e, per avere notizie, si sono rivolti all’avvocato Hinton che rappresentava il richiedente l’estradizione, cioè il Tribunale di Firenze e quindi l’Italia, cui ora spetta l’onere di dimostrare di aver provveduto a risolvere il problema dissipando ogni dubbio sul rischio di violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

A questo punto vale la pena leggere direttamente la sentenza per capire come i giudici siano arrivati alla decisione di non concedere l’estradizione. E sarà anche un esercizio utile per spiegare l’origine di certi sorrisini dei partner europei che suscitano in noi inutili “reazioni di sdegno patriottico” (vedi Mario Seminerio sul Fatto del 22 marzo). 

“Rispondendo a una domanda diretta dei giudici, la signora Hinton ha detto che non intendeva negare l’esistenza di un problema strutturale delle carceri italiane. Questa – ha scritto il giudice McCombe – mi pare un’ammissione corretta se si guarda alle prove prodotte in tribunale: ci è stata mostrata una lettera, datata 15 novembre 2013, spedita nel contesto di questo caso, dal ministero della Giustizia italiano al magistrato di collegamento britannico in Italia, che informa dei continui sforzi compiuti dall’Italia per soddisfare le richieste formulate nella sentenza Torreggiani”.

La lettera cita una visita del 5 novembre del ministro della Giustizia al presidente della Corte Europea, assicura l’interessamento delle massime istituzioni del Paese e racconta l’eccezionale messaggio del Presidente della Repubblica al Parlamento per spronarlo a prendere provvedimenti in materia. Poi, fa rilevare il giudice, procede descrivendo “i passi che si stanno facendo e quelli che si faranno per uniformarsi alle richieste della Corte Europea” mentre, in nessun punto “mai la lettera fa cenno a qualche richiesta della Corte che sia già stata soddisfatta”. Ciononostante, e con leggero sprezzo della logica, nella lettera si “assicura che, se il cittadino somalo Abdi Badre verrà estradato dal Regno Unito all’Italia, egli sarà detenuto in condizioni compatibili con l’articolo 3 della Convenzione Europea e non necessariamente sarà incarcerato negli istituti di Busto Arsizio o Piacenza in quanto potrebbe venire assegnato ad altri istituti correzionali”.

I giudici inglesi e l’avvocato dell’appellante non hanno voluto essere scortesi, anche se non è escluso che a questo punto qualche ‘sorrisino’ sia scappato anche a loro, e quindi non hanno messo “in dubbio la buona fede delle autorità italiane nelle rassicurazioni offerte e nei tentativi di migliorare la situazione delle prigioni italiane”.

Scrive il giudice McCombe: “Non voglio assolutamente dire che mai un tribunale di questo Paese potrebbe disporre senza pericolo un’estradizione verso l’Italia” ma “la situazione depone a favore dell’ipotesi che esista un concreto rischio di trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione e l’Italia non ha prodotto elementi sufficienti a dissipare questo dubbio. Mi sarei aspettato almeno qualche delucidazione sulla possibilità di ottenere la libertà su cauzione (se prevista), qualche informazione sullo specifico istituto in cui l’appellante verrebbe rinchiuso, ma le rassicurazioni contenute nella lettera del novembre 2013 sono solo generiche, non c’è nulla di specifico. E’ preoccupante che neanche si affermi con certezza che l’appellante non verrà assegnato agli istituti presi in esame dalla sentenza Torreggiani. Secondo il mio modo di pensare la mancata certezza su questo punto è un punto di grave debolezza che si riflette su tutta la lettera”.

Naturalmente nessuna delle soluzioni suggerite dei giudici inglesi potrebbe venire accolta: la libertà su cauzione in Italia non è prevista e il ministro della Giustizia non dovrebbe avere voce sulla destinazione dei detenuti, di cui si occupa invece il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che, tra i suoi criteri nell’assegnazione dei detenuti ai diversi istituti, non prevede ovviamente un trattamento di favore per i detenuti estradati.
Le soluzioni al nostro sovraffollamento carcerario dovremmo trovarle noi (Depenalizzazione di alcuni reati? Carceri di bassa sicurezza? Comunità esterne al carcere? Estensione dei domiciliari? Braccialetto elettronico?)
ma, quando non le troviamo, faremmo meglio a rispondere con un semplice no a chi ci chiede se le abbiamo trovate. Soprattutto quando tergiversare serve solo a renderci più inaffidabili agli occhi di chi ci troviamo di fronte, perché dev’essere abbastanza irritante per chi chiede, e ha bisogno di una risposta concreta, di sì o di un no, per prendere una decisione, doversi invece sorbire l’elenco dei nostri sforzi, degli impegni, delle promesse, dei tentativi, delle speranze e degli auspici. 

Pare che tutto questo faccia parte della nostra cultura: dire un sì o un no fa brutto, bisogna ricamarci sopra, girarci intorno, lasciare qualche strada aperta, fare i furbi a tutti i costi, anche a costo di essere considerati stupidi, suscitando negli interlocutori quei risolini di compatimento per cui poi ci adontiamo.

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