di Monica Montella e Franco Mostacci, ricercatori Istat
www.economiaepolitica.it, 29 marzo 2014
I Conti nazionali annuali dell’Istat costringono a tracciare uno scenario macroeconomico e di finanza pubblica tutt’altro che ottimistico.
Alla fine del 2013, rispetto al 2008, il Pil al netto delle imposte indirette (il cosiddetto valore aggiunto ai prezzi base) è diminuito del 6,9%. La caduta ha tra le sue cause il crollo degli investimenti fissi lordi, che in cinque anni si sono ridotti di 74 miliardi e la diminuzione dei consumi delle famiglie, che si sono ridotti di quasi 60 miliardi di euro. L’effetto di tutto ciò è stato un peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione italiana: in cinque anni si è avuta una contrazione delle unità di lavoro del 6,6%, mentre i redditi dei lavoratori dipendenti sono cresciuti soltanto dell’1,2% in termini nominali, riducendosi in termini reali*.
Se diamo uno sguardo ai dati di finanza pubblica il quadro è ancora più deludente. La spesa per prestazioni sociali in denaro cresce in 5 anni di 42 miliardi di euro, ma nel frattempo rinunciamo a 8 miliardi di euro di investimenti pubblici e ad altrettanti di contributi agli investimenti privati. Nel contempo le entrate sono cresciute di 19 miliardi di euro con un incremento di 10 miliardi delle imposte indirette. Tra il 2009 e il 2013 sono stati pagati 389 miliardi di euro di interessi passivi, ed il debito pubblico è aumentato di altrettanto, raggiungendo la cifra record di 2.069 miliardi di euro a fine 2013.
È chiaro che, dato questo quadro macroeconomico complessivo, se l’Italia volesse effettivamente ricondurre il rapporto debito-Pil verso valori vicini a quelli richiesti dal Fiscal Compact, potrebbe riuscire a farlo solo crescendo a tassi elevati – a differenza che negli ultimi anni. E tra gli elementi che potrebbero concorrere a ciò non potrebbe non esservi una grande ripresa degli investimenti pubblici – in particolare in settori strategici, che rappresentano il volano della crescita.
Così, tra le priorità per l’Italia (in linea con l’Agenda Digitale europea) c’è lo sviluppo dei servizi digitali, la cui realizzazione richiede investimenti sulle infrastrutture a banda larga e ultra larga. Lo sviluppo tecnologico è un aspetto prioritario che il nostro Paese non può più rimandare, per raggiungere l’obiettivo strategico di garantire la connessione veloce a internet per tutti attraverso le reti di nuova generazione (anche a quel 10% di popolazione che oggi non è raggiunta) e consentire di sviluppare una cultura informatica diffusa. Lo sviluppo della banda larga permette di accelerare sui servizi digitali (e-government) e sul piano di digitalizzazione dei processi, garantendo anche alle imprese la riduzione del digital divide, per porle in una condizione di sana ed efficiente competizione nei processi produttivi, anche in un’ottica di una maggiore produttività. Fondamentale per l’Italia è favorire quindi la riqualificazione dei settori tradizionali attraverso l’impiego di tecnologie innovative.
Anche gli investimenti nella green economy, oltre ad avere un valore etico, potrebbero offrire un pay back superiore alle spese effettuate. Secondo lo studio Smart Energy Project di Confindustria, se l’Italia desse avvio a politiche nazionali più incisive sull’efficienza energetica da qui al 2020 si potrebbe avere una crescita annuale della produzione industriale italiana di oltre 65 miliardi di euro (circa mezzo punto di Pil), creando 500mila posti di lavoro.
Un’altra priorità è la tutela e valorizzazione del patrimonio naturale (ad esempio attraverso la riduzione del rischio idrogeologico e messa in sicurezza del territorio) e culturale (una ricchezza unica al mondo mal sfruttata), con il vantaggio dell’effetto trainante del turismo sugli altri settori ad esso collegati come il commercio, i trasporti, i servizi di alloggio e ristorazione e tutto l’indotto legato alle attività artistiche, di intrattenimento e divertimento (che nel 2013 rappresentano solo il 3% del valore aggiunto).
Un contributo agli investimenti in questi settori potrebbe venire dai fondi europei 2014-2020, il cui cofinanziamento italiano potrebbe generare quelle risorse aggiuntive che, se colte senza indugio, ed usate in modo efficiente investendo nei settori ad alto valore aggiunto, potrebbero contribuire alla ripresa dell’occupazione nel nostro Paese. Tali risorse potrebbero essere utilizzate anche per innovare la nostra rete di trasporti, il che potrebbe rappresentare un ulteriore supporto al settore del turismo.
Le politiche di austerity fin qui attuate non hanno raggiunto l’obiettivo di risanare e mettere in sicurezza i conti pubblici, e al tempo stesso hanno pesantemente eroso la competitività delle imprese italiane e depresso la domanda interna (per gli effetti negativi sui redditi delle famiglie). Le proposte sopra dette per un piano di rilancio degli investimenti, mirato allo sviluppo di infrastrutture tecnologiche e in settori strategici ad alto valore aggiunto, potrebbero modificare questo quadro ma sarebbe quanto meno necessario lo scorporo degli investimenti pubblici dalla contabilità dei disavanzi e del debito. C’è da chiedersi, però, se l’attuale classe politica sia pronta e capace a promuovere un rilancio di questo tipo.
*Per approfondimenti si rinvia alla versione completa dell’articolo apparsa su www.economiaepolitica.it