Per raccontare davvero cosa sta accadendo in Veneto non servono le trascrizioni delle intercettazioni, la contabilità degli arresti o i dati, verosimilmente gonfiati, sull’affluenza al referendum on line per l’indipendenza della regione. Se si vuole essere seri e non fermarsi alle foto del “Tanko” o alle prevedibili discussioni sui colloqui telefonici degli arrestati, spesso sospesi tra le rodomontate fantozziane e l’eversione vera e propria (“Bisogna far saltare le banche… ci sarà una piccola parte dei Carabinieri che starà dalla parte degli insorti“), è meglio invece salire in auto e percorrere la Pontebbana a Treviso o la Strada del Santo a Padova. Lì la lunga teoria di capannoni sfitti o in vendita, fotografa meglio di ogni statistica un territorio che nel giro di sette anni ha perso 10,5 punti di Pil ed è tornato sotto i livelli del 2000.
In Veneto più di 20 mila imprese hanno chiuso nell’ultimo lustro, i disoccupati sono ormai 195 mila e il reddito medio nel 2013 è sceso di 600 euro. Il tutto mentre la regione ha continuato a versare 70 miliardi di tasse all’anno allo Stato, ricevendone indietro meno di 50. Per questo è facile immaginare che, al di là di ogni evidenza (progettare la secessione armata è un reato grave), i 24 arrestati saranno visti da molti corregionali come dei martiri. Col rischio che presto altri indipendentisti ci riprovino.
L’anarchico russo Michail Bakunin, che di insurrezioni se ne intendeva, spiegava: “La rivoluzione è più un istinto che un pensiero: come istinto agisce e si propaga, e come istinto darà le sue prime battaglie”. E in Veneto, ma non solo, l’istinto di rivolta c’è. Non per nulla l’istituto di sondaggi Demos, molto più credibilmente dei referendum on line, il 24 marzo ha scoperto che il 55% dei veneti è favorevole all’idea dell’indipendenza, anche se molti si accontenterebbero di “parlamentari migliori” (30%) e di un “federalismo vero” (20%). I cittadini, dopo essere stati ingannati dalla Lega, non chiedono solo più lavoro e meno tasse. Pretendono pure politici onesti legati al territorio. A Roma, dove si riforma la legge elettorale per garantire ai partiti un altro Parlamento di nominati, è forse il caso che qualcuno se ne accorga. Prima che sia troppo tardi.
Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2014