Una nebbia “strana”. “Improvvisa”. “Propria”: stava solo sull’Agip Abruzzo. Una “nube densa”. Una “nuvola di fumo”. Una “nube biancastra”. Una “massa nebulosa”. “Foschia”. In una notte senza luna nella quale dal lungomare tutti vedevano tutto. La tragedia del Moby Prince (10 aprile 1991) è stata spiegata dalla magistratura italiana con due cause, principalmente: la disattenzione del comando del traghetto e la nebbia. Una nebbia sottoposta a numerose verifiche: confortata da molte conferme, crivellata da molte contraddizioni. In questa storia c’è chi ne è sempre stato sicuro. Ma ci sono video, audio, testimonianze, condizioni atmosferiche che fanno sì che questa tesi sia, ancora oggi (dopo l’inchiesta bis conclusa nel 2010 con un’archiviazione), appesa a un filo. Eppure le testimonianze contraddittorie su quello stesso fenomeno (c’era nebbia, non c’era, era simile a vapore, o a fumo, era nebbia perché non c’era odore di fumo) potrebbero assumere tutte un senso. A rendere congrue ricostruzioni che altrimenti non potrebbero andare insieme neanche con la forza è una relazione realizzata da due ammiragli che hanno ricevuto l’incarico di consulenti dalla Procura di Livorno nel 2009. Ma di quella tesi non c’è traccia nella richiesta di archiviazione dei magistrati livornesi (poi accolta).

L’assunto dei due ammiragli è semplice: cambiare domanda a cui dare risposta. Non più: c’era nebbia? Piuttosto: cos’era quel fenomeno? In quella loro relazione Giuliano Rosati e Giuseppe Borsa scrivono ai pm che una spiegazione potrebbe esserci: un “banale” incidente nell’impianto caldaie dell’Agip Abruzzo – il cuore energetico della nave – che avrebbe provocato una fuoriuscita di vapore tale da nascondere totalmente la petroliera in 10 minuti. Esattamente il fenomeno descritto da diversi testimoni. “Per onestà intellettuale – scrivono gli ammiragli – riteniamo corretto farlo (avanzare l’ipotesi, ndr), essendo sufficientemente convinti della correttezza tecnica dell’ipotesi stessa”. 

Certo, ammettono i due esperti, è “un’ulteriore ipotesi priva di fatti documentari certi”. Ma, aggiungono, questo è perché “l’avvenimento proposto non è materialmente dimostrato in quanto non sono stati reperiti negli atti processuali esiti di ispezioni tecniche effettuate sull’Agip Abruzzo dopo il disastro”. E i consulenti hanno ragione da vendere: incredibilmente, a bordo della petroliera non ci furono mai ispezioni approfondite. L’unico sopralluogo dei periti a bordo della nave Snam avvenne pochi giorni dopo la sciagura: durò meno di mezz’ora. Meno di mezz’ora per esaminare una nave lunga 330 metri, larga 50, alta 25. Un’enorme fabbrica galleggiante. Non ci sono prove per sostenere l’ipotesi dei due ammiragli perché nessuno le andò a cercare o non le poté cercare. E ora – con la nave smantellata – è troppo tardi.

Gli addetti olandesi esperti in “riparazione di generatori di vapore”
Una conferma potrebbe arrivare ancora dalle carte. Pochi giorni dopo l’incidente l’armatore chiede un’autorizzazione alla Procura per far salire ditte di manutenzione e per la messa in sicurezza della nave. Tra queste una ditta olandese: i suoi addetti tra le varie competenze hanno proprio la riparazione di generatori di vapore. Sulla petroliera in quei giorni successivi al disastro salivano e scendevano addetti e imprese, peraltro. Salivano e scendevano in molti. Tranne il perito nominato dai magistrati che avrebbe dovuto stabilire qualità e quantità del greggio trasportato dall’Agip Abruzzo (compito per niente banale). Il consulente fu bloccato – per motivi “di sicurezza” – dalla Capitaneria di porto finché non fosse finito il cosiddetto “allibo” (cioè il trasferimento di petrolio) dall’Agip Abruzzo all’Agip Piemonte. Ok, rispose il consulente, lo farò al termine dell’allibo, ma sappiate che a quel punto non servirà a niente. 

La nebbia: il tormento del caso Moby Prince
La nebbia (improvvisa, strana, “propria” solo della petroliera, scrivono i giudici della corte d’appello del primo processo) entra stabilmente nel processo come nebbia “d’avvezione”. La nebbia d’avvezione – le fonti possono essere diverse – è un fenomeno frequente sul mare quando l’aria calda incontra l’acqua fredda. Presuppone una differenza significativa di temperature. E quella sera – secondo l’unico dato a disposizione, peraltro raccolto da una nave militarizzata americana alla fonda di fronte al porto di Livorno – l’acqua del mare era a 13 gradi, mentre l’aria a 14. Difficile definirla una differenza significativa di temperature. Ma anche fosse, ci sono testimonianze, audio, video che mettono ulteriormente in dubbio questa tesi. C’è un filmato amatoriale, per dire. Lo realizza il figlio di Nello D’Alesio, uno dei principali imprenditori marittimi di Livorno. Abitano sul lungomare della città, vedono l’incendio al largo, così tirano fuori la loro SuperOtto e cominciano a girare. D’Alesio senior è preoccupato per le sue bettoline (gestisce il servizio di bunkeraggio), accende anche la radio per seguire i soccorsi. Il video è molto buio, si vede solo il bagliore dell’incendio all’orizzonte. Ma le poche immagini che si vedono (la silhouette della nave contro la luce provocata dall’incendio, perlopiù) si vedono chiaramente. E’ rimasto nella storia – nella piccola grande drammatica storia del Moby Prince – il commento di Paolo Frajese, durante l’edizione del Tg1, dopo aver trasmesso quel filmato: “Una cosa è certa, non c’era nebbia”. E ancora ci sono anche gli audio registrati dal canale 16 d’emergenza la sera del disastro. Su tutti un grido, quello di Vito Cannavina, comandante dell’Agip Napoli, che rivolto alla Capitaneria di porto: “Evidentemente voi non avete ancora capito la gravità della situazione eh! Perché io ci sono ad un miglio e mezzo e sto vedendo quello che succede là eh! La nave è tutta a fuoco!”. Un miglio e mezzo, tradotto, fa 2 chilometri e 800 metri. E Cannavina sta “vedendo quello che succede” da quasi 3 chilometri.

I consulenti: “Con la nostra ipotesi più chiare testimonianze poco decifrabili”
Infine le testimonianze. L’ipotesi avanzata dai due ammiragli consulenti della Procura “chiarirebbe – scrivono loro stessi – molte testimonianze dal contenuto poco decifrabile se non con l’insorgere dell’evento che spiegheremo”. Rosati e Borsa elencano i nomi dei testimoni e allegano quello che descrivono. Due di loro sono allievi ufficiali dell’Accademia Navale di Livorno: sono affacciati alle finestre della cosiddetta “università del mare”. L’Agip Abruzzo, dice Roger Olivieri, “risultava avvolta da una nube che non saprei come meglio definire. (…). Ci affacciavamo alla finestra, da dove vedevo che lo stesso ancora continuava e inoltre un bagliore rosso-arancione di intensità variabile provenire dalla nave avvolta dalla nube”. Il collega Paolo Thermes parla di “massa nebulosa di colore bianco”. Mario Fazzari, impiegato del ministero degli Interni, è alla Rotonda d’Ardenza: “Potevo vedere chiarore rossastro ove si trovava la nave cisterna, non distinguevo più le luci della nave”. “A un certo punto vidi una fiammella sulla ciminiera – conferma Donatella Paterni, che sta portando a spasso il cane poco distante, ai Tre Ponti – Dopo circa un minuto ‘black out’ della nave e scomparsa totale delle luci”. 

L’ipotesi degli ammiragli: “La rottura di un tubo di vaporizzazione”
E allora cos’è successo secondo i due ammiragli consulenti della Procura di Livorno? L’ipotesi è questa. La petroliera Agip Abruzzo era dotata di due caldaie a tubi d’acqua. Avevano il compito di alimentare “varie utenze e servizi tra i quali un turbo alternatore per la produzione di energia elettrica”. Insomma: il cuore energetico della nave. Un meccanismo che prevedeva anche un processo di vaporizzazione dell’acqua all’interno di tubolature che “foderavano” la camera di combustione. Il vapore veniva raccolto in un collettore superiore e inviato alle utenze. Infine i gas combusti venivano espulsi dal fumaiolo della nave. Un impianto – precisano i consulenti dei pm – altamente automatizzato. L’ipotesi di Rosati e Borsa, dunque, è che uno o più tubi vaporizzatori nella camera di combustione si siano rotti. “Tale avaria – scrivono gli ammiragli – è piuttosto comune in questo tipo di caldaie e può avvenire per varie motivazioni spesso non prevedibili”. Dopo la rottura del tubo sarebbe seguito un “improvviso e violento ingresso di vapore” nella camera di combustione.

“Avaria piuttosto comune avrebbe prodotto condensa come 123 villette”
 L’effetto sul malfunzionamento del vaporizzatore è descritto in modo molto tecnico. La conclusione, in definitiva, è che il vapore all’uscita dal fumaiolo saturava l’aria esterna producendo una quantità di nebbia valutata in circa 74mila metri cubi. E gli ammiragli fanno pure i calcoli: una pagina di cifre, sigle, formule, variabili. L’ipotesi, precisano i consulenti, è che nell’ipotesi un tubo vaporizzatore rotto ed in un tempo di 10 minuti. “In breve tempo – scrivono Rosati e Borsa – tutto il lato destro della nave (sottovento) veniva completamente avvolto da una fitta cortina di condensa riducendo drasticamente la visibilità ad un osservatore posizionato a destra della nave”. I consulenti sanno di parlare a chi può non avere tutti gli strumenti per capire. E allora al termine dei calcoli dicono che in 10 minuti la condensa prodotta da tutto questo grande casino dell’impianto caldaie potrebbe essere di 74mila metri cubi. Quant’è? Per rendere l’idea Rosati e Borsa scrivono così: “E’ equivalente a 123 villette a due piani, di 100 metri quadri a piano”. 

“A bordo dell’Agip Abruzzo non se ne sarebbero neanche accorti”
A questo punto il due più due lo fanno direttamente i consulenti: “Coerenti diventano le dichiarazioni dei testimoni oculari Thermes, Olivieri, Bergonzi, Paterni…” e via con una serie di nomi. Tutti avevano osservato qualcosa di simile a un “alone biancastro sopra alla nave”, “bagliori rosso arancioni”. O fiammelle. O “tipo un lanciafiamme con variazioni di intensità, prima e dopo che la nave sparisse alla loro vista”. Cosa sono quelle fiammelle? “Sono riconducibili – prosegue la relazione – una alle lingue di fiamma che fuoriuscivano dal fumaiolo ed una al fanale rosso posizionato in testa d’albero”. Una ricostruzione che non contrasterebbe neanche con le dichiarazioni dei 30 membri dell’equipaggio dell’Agip Abruzzo. Secondo i periti un evento del genere sarebbe stato difficile da notare tempestivamente a bordo, se non guardando il fumaiolo. Sarebbe stato difficile anche per il personale di guardia nella “control room” della sala macchine (l’impianto di cui si parla era automatizzato). E sarebbero state giustificate, infine, le dichiarazioni del personale di bordo della petroliera che hanno detto di vedere attraverso gli oblò arrivare la nebbia qualche minuto prima dell’impatto. 

“Avrebbe disturbato il radar del Moby Prince”
Infine, in una storia dove non è mai tornato niente, si metterebbe al proprio posto anche il malfunzionamento di molti radar quella sera. Lo stesso Cannavina, sull’Agip Napoli, all’ancora a Livorno quella sera, dice che il dispositivo della sua petroliera “era molto disturbato per l’effetto clutter“. E i consulenti confermano: “Si ritiene utile sottolineare che il fenomeno riportato avrebbe potuto rendere difficile l’individuazione dell’Agip abruzzo anche al radar del Moby Prince a causa della possibile formazione di luminosità diffuse sullo schermo”. La nebbia non disturba i radar. Il vapore sì. 

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