Hanno ragione gli ambienti diplomatici italiani di Bruxelles a temere come la peste eventuali cause di lavoro da parte degli insegnanti impiegati all’Istituto italiano di Cultura della città. Sì, perché a soli 300 chilometri di distanza, all’ente gemello di Parigi, l’Italia è stata trascinata in tribunale e condannata dalla magistratura francese per una serie di irregolarità nell’applicazione dei contratti dei prof. Così, mentre in Belgio i docenti di italiano per stranieri, dopo 15 anni di lavoro nero, ora possono insegnare solo grazie alla mediazione di un’agenzia interinale, in Francia le cose sono andate anche peggio per lo Stato italiano. Dopo sette anni e mezzo di processo, Roma è stata costretta a reintegrare e risarcire due ex professori dell’Istituto di cultura. E ora, dopo vani tentativi di trincerarsi dietro l’immunità giurisdizionale, non sa più che pesci pigliare. Ma continua a non voler applicare la sentenza.
E’ l’incredibile vicenda di Mimmo Cioffarelli e Sergio Tirone, oggi quasi sessantenni, che per un decennio, a partire dal 1993, sono stati a libro paga della più grande scuola di italiano in Francia, emanazione diretta della Farnesina nella capitale europea della Cultura.
I due professori, come il resto del corpo docente impiegato in rue de la Grenelle, lavora con contratti di prestazione d’opera rinnovati ogni sei mesi. Fino al 2001, quando l’Istituto italiano di Cultura di Parigi ricorre a un escamotage che si rivelerà fatale: affida i contratti degli insegnanti a un’associazione privata che figura così come intermediario in modo da non far figurare nessun rapporto diretto fra i lavoratori e l’ente.
Ma Oltralpe non si scherza con il diritto del lavoro e gli ispettori del Fisco francese ci mettono solo pochi mesi a scoprire il trucco: l’Associazione culturale Vitalia altro non è che una società paravento creata ad hoc per consentire all’Ambasciata d’Italia a Parigi (che ha il controllo diretto dell’Istituto di Cultura) di evadere gli oneri fiscali e previdenziali.
La situazione si trascina fino al 2003, quando l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini nomina, tramite il meccanismo dei “chiara fama”, direttore dell’Istituto parigino Giorgio Ferrara: regista, ma soprattutto fratello di Giuliano, l’Elefantino direttore del Foglio. Assunto l’incarico, il neo-direttore non vuole sentire ragioni e prende una decisione drastica: dall’oggi al domani interrompe i corsi lasciando a casa gli studenti, ma soprattutto gli insegnanti. La vicenda fa scalpore: perfino Le Monde e Liberation criticano la decisione sottolineano il suicidio di una scuola che aveva raggiunto la cifra record di 850 iscritti e un giro d’affari superiore al milione di euro. E, come a Bruxelles, gli allievi non sono ragazzi, ma intellettuali, facoltosi diplomatici e funzionari con la passione per il Bel Paese.
I docenti a quel punto reagiscono nei modi più diversi. Alcuni si rassegnano, altri colgono l’occasione per fondare una propria scuola di italiano con professori e studenti lasciati a casa da Ferrara. Ma non Cioffarelli e Tirone che invece vogliono andare fino in fondo. Così portano dieci anni di contratti al Tribunale francese del lavoro per rivendicare il riconoscimento di un vincolo di subordinazione derivante dall’impiego reiterato e continuato della loro professionalità.
Gli ex datori di lavoro, Ambasciata e Farnesina, sono con le spalle al muro e si costituiscono in giudizio cercando in tutti i modi di disinnescare l’attività della magistratura parigina. Cercano di far passare l’Istituto culturale come rappresentanza diplomatica e l’insegnamento dell’italiano come attività sovrana di pubblica utilità: insindacabile da un tribunale straniero. Ma il giudice non la beve e il 7 novembre 2011 condanna l’Italia a reintegrare Mimmo e Sergio e a risarcirli dei contributi mai versati con cifre che variano dai 45 ai 50mila euro.
Storia finita quindi? Per niente, perché, e arriviamo ai giorni nostri, lo Stato italiano si è sempre rifiutato di applicare il pronunciamento del giudice.
Loro malgrado, Cioffarelli e Tirone scoprono così di essere finiti al centro di un mezzo incidente diplomatico, col ministero degli Esteri francese che il 9 ottobre 2012 invia all’ambasciatore italiano, Domenico Magliano, una nota ufficiale con la richiesta di esecuzione delle sentenza emessa un anno prima.
Ma nulla si muove e oggi come allora quella liquidazione è una controversia internazionale ostaggio delle decisioni della Farnesina che su trincea dietro il silenzio e lo scaricabarile. Dice di non saperne nulla l’attuale direttrice dell’Istituto Marina Valensise, sorella del segretario generale degli Affari esteri nominata per via politica sotto la Tour Eieffel. Dovrebbe essere lei a reintegrare Mimmo e Sergio, ma, quando per caso a un vernissage se li trova davanti, fa scena muta. Poco sa anche il vice dell’ambasciatore Magliano, Domenico La Spina, che giura di essere in attesa di notizie da Roma e di avere fatto ripetuti solleciti caduti nel vuoto.
“Forse perché il nostro caso rischia di diventare un precedente per tutte le situazioni pendenti nel resto della rete culturale. Se lo Stato pagasse, i docenti potrebbero avere qualche speranza”, ipotizzano i due insegnanti. Girano con la sentenza in tasca come fosse il passaporto per una nuova vita. Nel frattempo vivono di lavoretti saltuari: Mimmo ha una pensione sociale e un contributo minimo per l’affitto, Sergio attraversa tutta Parigi per una lezione privata da 30 euro che diventano il buono spesa o il contributo alla bolletta della luce. Seduti a un café di Saint Germain des Prés fantasticano il giorno in cui saranno ripagati i torti. Ancora sognano, forti di una rivincita personale e professionale che è scritta per sentenza. E che solo l’indolenza del loro Paese sta riuscendo a trasformare in una nuova, amara, sconfitta.