Sono quattrocento villette a schiera, due piani, prospetto rosa, giardino, stradoni enormi dai nomi improbabili e intorno il nulla della campagna ancora verde che ricorda un quartiere residenziale di una cittadina del Kentucky. Ma non sono gli Stati Uniti e non è nemmeno un quartiere residenziale: è invece la Sicilia, pochi chilometri da Mineo, provincia di Catania, e un lungo muro di filo spinato che circonda l’intero perimetro, guardato a vista dai militari italiani forniti di mitra che ricordano inquietanti immagini di guerra. Da lontano il residence degli Aranci sembra un’oasi nel nulla della campagna siciliana. Un posto incantato costruito 14 anni fa, che la società Pizzarotti di Parma ha affittato per alcuni anni alle famiglie dei militari americani di stanza alla base di Sigonella.
Nel 2010 però gli yankees hanno dato forfait, annullando il maxi affitto delle villette. Poco male, perché nel frattempo era scoppiata la primavera Araba e gli sbarchi tra Lampedusa e la costa siciliana erano ripresi numerosissimi: la Sicilia era tornata terra di confine. Un luogo perfetto per impiantare nuove strutture dove mettere in mostra la solidarietà italiana, tanto decantata fino agli ultimi giorni dal ministro Angelino Alfano. Il residence degli Aranci, poi, sembra perfetto, anche se dista alcuni chilometri dai centri abitati ed è lontano, parecchio lontano, dai luoghi nevralgici interessati dagli arrivi a ritmo continuo degli esuli. Questa però è una storia dove la logica non esiste, i diritti basilari latitano e la realtà supera di gran lunga ogni più aberrante fantasia. E’ così che il quartiere residenziale del Kentucky made in Sicily è diventato, al modico costo di sei milioni di euro all’anno, uno dei centri per richiedenti asilo più grandi d’Europa: il Cara di Mineo.
Qui quattromila persone aspettano che la loro richiesta d’asilo venga valutata dalle commissioni inviate dal Viminale: un’attesa che a volte dura anche più di un anno. Sono 3.519 uomini, 319 donne e 57 minori, suddivisi a gruppi di trenta per ogni villetta che un tempo era destinata a un unico nucleo familiare statunitense. Per ognuno degli ospiti il centro attuatore del Cara (ovvero il consorzio Calatino Terra di Accoglienza, che raggruppa i comuni della zona) riceve 34,60 euro al giorno, ovvero più di cinquanta milioni l’anno. Dati che fanno del Cara di Mineo non solo una tra le prime aziende dell’isola, ma anche, e forse soprattutto, un posto in cui il tempo è sospeso, il decoro un concetto opinabile e l’apparenza differisce spesso da quella che è la realtà. Entrarci non è semplice. Visitarlo, riuscendo poi a muoversi in autonomia tra i vialetti surreali governati dalla miseria, è ancora più difficile.
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Viaggio nel Cara di Mineo gli scatti della vergogna (9)
L’unica soluzione è fare parte di una delegazione parlamentare, per poi staccarsi dal gruppo che viene guidato dagli operatori nella visita del centro. E’ questo che ilfattoquotidiano.it ha fatto. L’occasione è la visita che l’onorevole Erasmo Palazzotto, parlamentare di Sel, ha effettuato al Cara domenica 12 aprile. La strada d’ingresso è un’enorme fetta di asfalto nero, ha un nome altisonante e tragicomico, Constitution avenue, che racconta di solidarietà italiana ordinata e pulita. Pochi passi e ai lati si notano subito capannelli di giovani uomini dagli occhi spenti: non parlano italiano, nonostante al Cara dovrebbero studiarlo, indagano i volti sconosciuti dei visitatori e trasudano diffidenza. Cercare di carpire qualche informazione sulla loro reale situazione è difficile, visitare le loro abitazioni quasi impossibile: troppo ingombrante la presenza dell’intera delegazione parlamentare, guidata dai lavoratori del centro.
Ma questo è un viaggio all’inferno. E in ogni viaggio all’inferno c’è bisogno di un Virgilio. Che in questo caso si chiama Hassan Maamri, responsabile immigrazione dell’Arci Sicilia, marocchino trapiantato a Caltagirone, capace di parlare un numero imprecisato di lingue. E’ lui che con un paio di occhiate consiglia di separarsi dal gruppo che costituisce la delegazione ufficiale, approfittando della confusione creata da centinaia di ospiti del centro in fila alla mensa. Sono solo pochi passi, qualche viale, e la geografia cambia radicalmente. Se fosse un film, o magari una storia partorita dalla fantasia di qualcuno, sarebbe ambientato nella periferia di una città americana, con gli stradoni larghi trasformati in spazi caotici come i mercatini di Mogadiscio, e una specie di Babele fatta di tutti i dialetti africani parlati contemporaneamente. Ma questa non è una storia e non è nemmeno un film: è la realtà del Cara di Mineo, ed è molto diversa da come appare da lontano o nelle visite ufficiali che percorrono la strada principale.
Pochi metri e le aiuole ordinate scompaiono per lasciare spazio alla sporcizia, ai rifiuti abbandonati, agli stracci. Rimangono solo le antenne paraboliche piazzate lì per gli americani, che i migranti utilizzano come sostegno per stendere i panni. Anche l’atteggiamento degli ospiti cambia. “Il cibo fa schifo, ci sentiamo male, abbiamo problemi di stomaco, ma in infermeria ci danno delle bustine, ci dicono di non preoccuparci”è la lamentela più diffusa, unita alla richiesta di sigarette. “Qui gli danno un pacchetto di sigarette ogni due giorni: visto che non hanno niente da fare anche chi non fumava ha iniziato – racconta Hassan – solo che poi hanno iniziato a vendere le sigarette di contrabbando nei centri vicini: il vizio, però, ormai l’hanno preso”.
Quello che si è sviluppato dentro al Cara è un mercato nero. Sparpagliate qua e là ci sono addirittura delle strane bancarelle: sono piene di generi alimentari di prima necessità. Un barattolo di latte? “Fifty cent” ci rispondono i proprietari, che hanno messo su vere e proprie rivendite abusive di alimentari, dato che il cibo fornito dal nostro governo è immangiabile persino per chi come Ionannes, eritreo di 24 anni, ha visto sua madre morire mentre attraversavano il deserto. “Io ho spesso forti dolori allo stomaco, se vado in infermeria mi danno solo delle bustine, ma i dolori rimangono” ci racconta un ragazzo del Gambia. Il lato oscuro dell’inferno, però, è rappresentato dalle case. Le villette a due piani, pensate per ospitare una famiglia, sono divise in quattro o cinque stanze, e in ognuna ci arrivano a dormire fino a sette persone. Varcare la soglia fa perdere l’equilibrio: l’aria è irrespirabile, ovunque ci sono rifiuti, stracci, resti di cibo avariato, si fa fatica a respirare dato che la temperatura è molto più alta rispetto all’esterno. Colpa dei fornelli, accesi nei luoghi più improbabili, tra il bagno con gli scarichi intasati e le mattonelle scheggiate delle scale.
“Questo è riso e latte” spiegano ad Hassan alcuni ospiti del centro, ragazzotti nigeriani che aspettano di sapere che fine ha fatto la loro richiesta d’asilo da quasi un anno. Ci mostrano la loro cella, cinque metri per cinque, dove i letti non hanno lenzuola ma solo brandelli di stoffa, mentre al posto delle porte sono state piazzate luride tende un tempo forse utilizzate come tovaglie. Il caldo è insopportabile, ma in un cantuccio un ragazzo è avvolto in una coperta pesante. “L’altro ieri mi hanno operato” spiega mostrando ancora i segni di una lunga medicazione che gli squarcia lo stomaco: in faccia è pallido e ha gli occhi spenti, vuoti, altrove. E come avviene in questi casi, la miseria può generare solo altra miseria.
“La casa delle donne? Si c’è, ma ho paura a portarvi, poi mi vedono” dice un ragazzo nigeriano a proposito di una specie di bordello clandestino all’interno del campo. “Vuoi erba, ti serve erba?” ci propone subito dopo. Direttore e operatori del Cara (360 lavoratori in totale) giureranno poi di non aver mai sentito alcuna notizia a proposito di prostituzione interna al centro e nemmeno riguardo il commercio di stupefacenti. Ed è altamente probabile che sia così. Perché il problema del Cara di Mineo non è costituito da chi lo gestisce: il male originario di questo inferno è rappresentato dalla stessa idea che sta alla base del progetto dei centri per richiedenti asilo. Concentrare quattromila esuli provenienti dai luoghi più infernali dell’Africa in un villaggio al centro della Sicilia non è un atto di solidarietà : è solo apparenza. La realtà, quella vera, è un’altra. Ed è molto simile all’inferno.