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Cara Gruber, non basta essere donne per essere migliori

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Gentile Lilli Gruber, vorrei intervenire rispetto a quanto ha scritto su ‘Io donna’ il 24 aprile.
Nel tempo ho ascoltato, mio malgrado, discorsi in cui la partecipazione delle donne alla vita pubblica veniva stigmatizzata attraverso pseudo-argomentazioni che io ritengo assurde. Ci chiamavano “uterine” o anche “isteriche” così come oggi continuano a chiamarci “emotive” con l’obiettivo di rinsaldare il pregiudizio sessista secondo cui una donna, con un regolare flusso mestruale, è destinata a essere dominata da ormoni mostruosi che non le permetterebbero sufficiente lucidità per gestire alcunché.

Resiste con forza il pregiudizio secondo cui una donna incinta non sarebbe più neppure in grado di pensare. Anche per questo siamo spesso escluse dal lavoro, costrette a firmare dimissioni in bianco ovvero a vedere precarizzata la nostra esistenza in base a tanto semplicistiche quanto illogiche discriminazioni. Per non parlare di quello che succede se una donna fa un figlio: anche il ritorno alla vecchia postazione di lavoro può diventare un miraggio perché nel frattempo gli incarichi che erano tuoi passano all’altra collega, quella non gravida e quindi più disponibile.

Nasce da qui un paradosso. Se prima, nonostante il talento e il merito, non riuscivi ad accedere alla posizione che ti spettava perché eri una donna oggi pretendi di poter ottenere posti di lavoro, cariche pubbliche e ruoli di prestigio solo ed esclusivamente perché sei donna.

Questa è la sostanza politica delle quote rose e quello che leggo anche nel suo ragionamento. Lei scrive che non valorizzare le competenze delle donne è arretratezza, e fin qui siamo d’accordo. Poi però dice anche che gli uomini, comunque, sono spinti dal testosterone ed essendo il testosterone assai dannoso per l’umanità allora bisogna limitarne gli effetti e le influenze nei luoghi del potere. 

Consegue a questo ragionamento il fatto che gli uomini andrebbero discriminati in quanto uomini perché influenzati negativamente dai propri ormoni. Se quel che diciamo è che basta essere donne per essere migliori non le sembra, però, si ripeta uno schema antico? E’ tutta qui la nostra rivoluzione? Non le sembra che così facendo si vanifichi tutta la complessità, lo sforzo critico e di analisi di tutte quelle che negli anni hanno rilevato come resistano, anche tra donne, forti differenze di classe, razza, identità politica?

Per esempio: scrive Christian Raimo in un suo articolo che sebbene la componente femminile nelle istituzioni sia oggi aumentata, in realtà, poi, sembrerebbe che di femministe lì proprio non ce ne siano. Quello che c’è è una presenza riconoscibile in quanto comunità ginocratica, genetica più che di genere”. Raimo continua poi dicendo che “questo sedicente e presunto femminismo che considera le donne solo come vittime (…) è penoso, inutile e politicamente regressivo.”

Le donne che ricoprono cariche di prestigio spesso sono antiabortiste, omofobe, familiste, neocolonialiste, razziste, distanti dai problemi reali delle persone e delle donne che dicono di rappresentare. Recitano il femminismo ed evitano, così, di assumersi la responsabilità politica per i provvedimenti economici che votano o promuovono e per quelle decisioni assunte in nome di donne che poi neppure ascoltano. Quello che praticano si chiama “pinkwashing” ed è pinkwashing anche la campagna elettorale attuale giocata sulle capolista.

Io mi rifiuto di pensare che vada bene tutto purché sia donna e più che limitare il testosterone al potere immaginerei di limitare l’autoritarismo, la visione borghese, la totale distanza dai bisogni reali dei cittadini e delle cittadine, perché il problema non credo sia il testosterone. Il problema sono le idee. Una buona idea non è maschio o femmina. E’ solo una buona idea.  

Cordiali saluti

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