Da banchieri d’assalto per Lehman Brothers e finanziatori della scalata alla Telecom di Roberto Colaninno a truffatori di Casse degli enti previdenziali di ragionieri, medici e giornalisti, la strada è davvero lunga. E i Magnoni, con la loro holding Sopaf, l’hanno percorsa tutta, fino in fondo, all’interno di uno stretto sistema di relazioni fra politica romana e finanza milanese con un filo rosso che unisce gli anni da premier di Massimo D’Alema (1999) a quelli di Romano Prodi (2007) fino ad arrivare a Matteo Renzi. L’epilogo è l’arresto con le indagini del pm milanese, Gaetano Ruta, che contesta ai Magnoni i reati di associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, truffa, frode fiscale e appropriazione indebita. Con queste accuse, infatti, il gip Donatella Banci Buonamici ha deciso gli arresti dei finanzieri Ruggero, Aldo, Giorgio e Luca Magnoni, oltre che di Gianluca Selvi, presidente della cooperativa Confidi-Prof e “dominus” occulto della Hps, Andrea Toschi e Alberto Ciaperoni, rispettivamente ex direttore generale e ad di Sopaf capital management, società di gestione del gruppo. Toschi è stato anche ad di Adenium, società di gestione del risparmio di Sopaf.
Per la Procura di Milano i Magnoni, vicini a personaggi di spicco della finanza , l’ad di Mediobanca, Alberto Nagel e il finanziere renziano Vincenzo Manes, hanno utilizzato Sopaf come un bancomat prelevando indebitamente almeno un centinaio di milioni. Senza contare il frutto illecito delle operazioni finanziarie perpetrate a danno della Cassa dei ragionieri (Cnpr), dell’Istituto nazionale previdenza giornalisti (Inpgi) e della Cassa dei medici, Enpam. Diversi i meccanismi attraverso i quali i Magnoni avrebbero operato per appropriarsi del denaro e sui cui i magistrati stanno ancora acquisendo materiale attraverso le perquisizioni effettuate dalle fiamme gialle negli uffici di Paolo Saltarelli, presidente della Cassa di previdenza dei ragionieri, e di Andrea Camporese, presidente dell’Inpgi.
Per la cassa dei ragionieri, gli illeciti per i quali si ipotizza il reato di associazione per delinquere ruotano attorno alla società che ne gestiva i fondi, Adenium, controllata da Sopaf e guidata all’epoca da Andrea Toschi, ex presidente di Arner bank, cioè l’istituto di credito caro all’ex premier Silvio Berlusconi e al centro di un’indagine per riciclaggio. Con somme prelevate dalla Cnpr la holding lussemburghese Adenium Sicav, controllata da Adenium, ha sottoscritto titoli per 52 milioni e li ha poi affidati in gestione alla Hps di Gianluca Selvi. Secondo la ricostruzione dei magistrati, i soldi sono poi finiti all’estero attraverso società offshore con conti bancari alle isole Bermuda e Mauritius prima di approdare nuovamente in Italia e tornare nella disponibilità di alcuni degli arrestati.
Ben diverso è il meccanismo con cui sono stati truffati l’ente di previdenza dei medici (20 milioni di euro) e quello dei giornalisti (7 milioni di euro) con l’acquisto di quote dal fondo Fip, creato nel 2004, sotto il governo di Silvio Berlusconi, per la valorizzazione degli immobili di Stato. Le casse hanno sottoscritto i contratti di compravendita ad un prezzo “immodificabile” con conseguenti “operazioni obiettivamente pregiudizievoli” per le casse.
Il capitolo delle truffe, che include anche “un investimento immobiliare, ai danni della Cassa di Risparmio di Ferrara, con un illecito guadagno di 17 milioni di euro”, è comunque solo uno dei capi d’accusa contro i Magnoni. Nelle carte dei magistrati c’è poi anche tutta una parte dedicata alla bancarotta fraudolenta di Sopaf. Una dopo l’altra i magistrati snocciolano un lungo elenco di operazioni finalizzate esclusivamente a sottrarre ricchezza alla società per cui è stato chiesto il fallimento nel settembre 2012. Ci sono 6 milioni di euro trasferiti nel 2007 dalla LM & Partners Sca, società in liquidazione della Sopaf, alla Plato Consultores & Servicos Limitada, con sede a Madeira. E poi altri finanziamenti del 2008-2010 a favore della Ovo Italia S.r.l. (5 milioni per l’azienda riconducibile al volto tv Andrea Pezzi) e della controllata “Pragmae S.P.A (già Essere spa) (7,5 milioni) “prive di qualsivoglia giustificazione economica”. O ancora un risarcimento transattivo alla Osram (850 milioni) ed infine il finanziamento a favore della partecipata Sopaf & Partners S.p.a. (4,6 milioni) con cui quest’ultima compra nel 2008 l’Hotel Tiberio di Capri lanciandosi nel business immobiliare con la Start Re (2,5 milioni di investimento). Infine spunta anche un’operazione da un milione che passa per una società sudafricana, Newman Lowther & Associates Ltd, con la sottoscrizione di un prestito obbligazionario nel 2006 convertito nel 2011 in quote di capitale e ben 2,1 milioni di finanziamenti per la China Opportunity “a titolo di rimborso finanziamento, nonostante Sopaf vantasse crediti nei confronti di tale società ai quali aveva rinunciato senza alcuna plausibile ragione” come si legge nelle carte.
A completare il quadro dell’indagine dei giudici c’è poi una parte dedicata a tutte le operazioni sul mattone realizzate attraverso il fondo immobiliare chiuso denominato Soreo (ex fondo Tergeste), partecipato da Sopaf S.p.a. e gestito da Polis Sgr, di cui Aldo Magnoni e Renato Martignoni erano membri del consiglio di amministrazione: i giudici hanno acceso i riflettori sul passaggio dal fondo della partecipazione in Immobiliare Broletto S.r.l. alla Dascal S.r.l e su una serie di operazioni condotte con Fasc Immobiliare S.r.l. su alcuni immobili in centro a Milano. Le contestazioni dei magistrati si spingono poi fino al fallimentare investimento in Banca Network Investimenti, ad una transazione con il Banco Popolare, siglata nel settembre 2009, in cui si rinuncia ad ogni pretesa dietro il pagamento di un corrispettivo, (3,8 milioni di euro), ritenuto di giudici “del tutto inadeguato” e alla cessione della quota della Five Stars SA a Vittorio Pignatti Morano Campori per 2 milioni di euro, cifra di gran lunga più bassa rispetto al valore contabile (3,479 milioni). Di qui il sequestro da parte della Guardia di finanza del Nucleo di polizia valutaria di 65 immobili, la maggior parte nel centro di Milano, riconducibili agli indagati, una decina in tutto oltre agli arrestati, villette, auto e oltre 250 rapporti bancari.
La ragnatela dei rapporti economici, finanziari e politici dei Magnoni è del resto molto articolata. Figli d’arte (il padre Giuliano, nonno di Luca, fu socio e consuocero del finanziere bancarottiere Michele Sindona), Giorgio, descritto oggi dai giudici come il “capo” dell’associazione a delinquere attiva fra il 2005 e il 2013, nel lontano 1999 era il socio dell’ Oak fund, importante finanziatore di Roberto Colaninno, oggi presidente Alitalia, e del raider bresciano Emilio Gnutti nella loro scalata all’Olivetti. Lo stesso fondo dietro cui si narra ci fossero investitori Ds. Il fratello Ruggero, che per gli inquirenti ha collaborato “nella costruzione di operazioni finanziarie finalizzate al conseguimento di profitti illeciti” era il numero uno della banca statunitense Lehman Brothers che assiste Colaninno nella “madre di tutte le scalate” quella a Telecom Italia realizzata con la benedizione di D’Alema. Ruggero ha sempre vantato amicizie influenti, persino in contrasto fra di loro come Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. E la sua famiglia è stata l’unica a diventare così potente da immaginare di poter scalzare dalla Fiat gli Agnelli. Era il 2005 e la famiglia Torinese si chiuse a riccio con un’operazione che ha portato alla condanna (poi censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) di Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens ma che ha permesso agli Agnelli-Elkann di mantenere il controllo sulla Fiat. Una mossa ambiziosa, forse troppo, da parte dei Magnoni la cui stella ha subito poi un duro colpo con il crac di Lehman del 2008. Quello che in Italia ha colpito 127mila risparmiatori ai quali erano state vendute polizze index linked con sottostanti della banca americana. Poi, mentre Torino recuperava vigore, il colpo di grazia è arrivato con l’investimento in banca Network, istituito milanese ha chiuso senza neanche riuscire a pagare i correntisti lasciando con il cerino in mano altre 30mila persone.