“Dopo molti anni di attesa sono finalmente rimasta incinta, ero al settimo cielo. Quando poi mia figlia è nata, le cose sono cambiate. La gioia che ero certa di provare una volta stretta tra le mie braccia, ha lasciato posto a un vuoto, un buco nero. Mio marito tornava a casa e trovava una donna molto diversa da quella che aveva sempre conosciuto. Ero senza energia, apatica. Tutto questo è durato circa un anno, poi pian piano le cose sono migliorate. Ma quel ricordo resta sempre vivo”.

“Pensavo che con il secondo figlio le cose sarebbero state diverse. Avevo più esperienza, sapevo cosa mi aspettava. Ma quando è arrivato l’inverno, in casa con due bambini piccoli, la depressione mi ha presa alle spalle. La combattevo pulendo la casa in modo maniacale e alla sera mi sfogavo su mio marito. I bambini erano un peso insopportabile ma con il mondo, fingevo una felicità che non avevo. Mi sentivo una madre indegna, sbagliata, malata.

Secondo i dati forniti dal Ministero della Salutein Italia la DPP colpisce dall’8 al 12% delle neomamme; secondo i dati ISTAT del 2008 “su 576.659 nascite all’anno almeno 46.000 donne ne possono soffrire”.

Se digitate su internet il termine “mamma”, anche in altre lingue, le immagini che salteranno fuori sono di donne che reggono in braccio il loro pupo, sorridenti e appagate. Questo è il ritratto – nell’immaginario collettivo – della donna quando diventa madre, questa è l’idea che si finisce per interiorizzare, volenti o nolenti. In Italia, più che in altri paesi, il culto della mamma è vivo e vegeto: una donna, nell’accezione del termine, deve voler essere madre, e quando lo diventa, guai a lagnarsene.

Nei cosiddetti paesi “avanzati” chi incespica sulla via è oggetto di biasimo, commiserazione, reo di un intollerabile fallimento; si ignora che la vera forza sta proprio nel mettere a nudo la propria debolezza. Se una donna non è al massimo della forma “sono gli ormoni”, se non è la gravidanza è il post parto, se non è il mestruo è la menopausa. Nutriamo da sempre lo scherno a poco prezzo dei barzellettieri di tutto il mondo.

Il mondo si aspetta che non appena il bambino viene posato tra le braccia della madre frastornata, questa sia subito padrona della situazione, dimenticando che occorre tempo per diventare genitori. Solo il 20% delle donne colpite da questo disturbo ricevono un trattamento adeguato, le altre se la sbrigano da sole, sopportando in silenzio e vivendo nell’isolamento questa forma lancinante di disagio, per il quale si teme il giudizio degli altri.

Si aspetta che il malessere passi da solo, prolungando così la mortificazione di non essere come quelle mamme in copertina tutte sorriso e forma al top.

Quando è nata la mia secondogenita sono caduta anch’io in quel pozzo di solitudine.

Sentivo che l’universo mi aveva abbandonata, persa l’indipendenza di un lavoro autonomo mi sono ritrovata a fare i conti con un ruolo mai sperimentato prima. Invidiavo mio marito che passava la giornata tra “adulti” e le mamme che tornavano presto al lavoro. I sensi di colpa mi torturavano. Perché non riuscivo ad essere soddisfatta? Nessuno mi aveva detto che fare la mamma a tempo pieno poteva essere un percorso accidentato.

Alla fine ho chiesto aiuto. Farlo non mi ha sminuito come madre né come donna, e se l’avessi cercato prima, avrei evitato molti mesi di sofferenza.

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