La protesta stavolta è davvero globale. Se ne ha la prova seguendo sul sito fastfoodglobal.org, che dà voce alla lotta internazionale dei lavoratori dei fast food, da McDonald’s a Burger King, la scansione delle varie proteste in tutto il mondo. Si vedono le foto dei lavoratori di Dublino seguire quelle provenienti da Buenos Aires. Quelle francesi, davanti a Starbucks, si sovrappongono alle foto davanti a Cherry Barry, catena di yogurt-bar. E poi Porto Seguro, in Brasile o Auckland in Nuova Zelanda.
L’idea è nata durante il primo meeting internazionale organizzato a New York dallo Iuf – International Union of Food – il 5 e 6 maggio scorsi, al quale hanno partecipato i rappresentanti sindacali dei lavoratori dei fast food di 33 paesi. La mobilitazione in Italia ci sarà oggi, 16 maggio, e vedrà cortei a Roma e a Milano.
Ma la spinta principale è venuta direttamente dal “centro dell’Impero”, dagli Stati Uniti. La vertenza che vede impegnati i lavoratori del fast food, a partire da McDonald’s, ha attraversato, nell’ultimo anno, almeno 60 città con scioperi, picchetti e occupazioni simboliche dei ristoranti. In parte per effetto del clima di “Occupy Wall Street” ma soprattutto per il peggioramento delle condizioni di lavoro negli Usa. La paga oraria del settore, infatti, è di 8,94 dollari e in quella somma va compreso l’intero welfare, a partire dall’assistenza sanitaria. Ma in molte città, come ad esempio New York, si supera di poco il minimo legale orario che è 7,25 dollari l’ora contro la media nazionale che è di 18,30 dollari.
Per questo parole d’ordine per l’aumento del salario e per il diritto a organizzarsi sindacalmente hanno fatto sempre più presa fino ad arrivare alla siderale rivendicazione della Fightforfivteen, la lotta per i 15 dollari orari. Un modo per ribadire che i lavoratori del settore, ormai, non percepiscono più il proprio lavoro come precario o temporaneo ma come quello che gli darà da vivere per un periodo più o meno lungo.
Ad aiutare la vertenza, negli Usa, c’è stata la campagna per il rinnovo del sindaco di New York, che ha visto molti candidati impegnati a fianco dei manifestanti, che non sono certamente la maggioranza dei lavoratori dei fasto food, ma soprattutto la proposta del presidente Obama di portare il salario minimo legale a 9 dollari l’ora. Un modo per parlare alla comunità afro-americana e ispanica che rappresenta un bacino elettorale importante. In ogni caso, la miscela ha funzionato e l’effetto è stato quello di innescare la prima protesta globale.
“La situazione in Italia – spiega al Fatto Cristian Sesena, della segreteria Filcams – in parte è diversa ma in fondo è la stessa”. Da noi la paga oraria per un quarto livello, il più diffuso, è di 7,6 euro l’ora. Bassa ma, paradossalmente, migliore di quella statunitense perché i nostri livelli di welfare garantiscono contributi previdenziali e sanità pubblica. Quello che equipara le condizioni a livello internazionale, però, è che lavorare da McDonald’s – colosso da 16mila dipendenti in una catena all’80% in franchising – non è più sinonimo di precarietà giovanile. L’età media aumenta e, conferma Sesena, “per molti diventa un impiego stabile. Solo che la maggior parte dei contratti, a tempo indeterminato, è fatto da part-time da 20 ore. La precarietà resta la regola”. Molto duro, invece, è lo stato delle relazioni sindacali. La categoria, in cui si trovano McDonald’s, Autogrill e altri, è rappresentata da Fipe-Confcommercio che ha annunciato la disdetta del contratto nazionale. “Chiedono di abolire scatti, permessi e altre acquisizioni per finanziare eventuali aumenti. Altrimenti, è la minaccia, stracceranno il contratto e ricorreranno a un regolamento unilaterale”. Una sorta di “modello Marchionne” applicato ai fast-food. Oggi i lavoratori saranno in piazza a Roma (piazza della Repubblica), Milano (piazza della Scala), Bologna, Firenze e altre città, insieme al settore del turismo, proprio per difendere il contratto nazionale, convinti che la protesta globale, questa volta, “è la strada più utile”.
Da Il Fatto Quotidiano del 16 maggio 2014