Per avere un muro di protezione, Rolando Pellegrini, 76 anni, uno degli abitanti di via Ponchielli, aveva promosso una raccolta firme. Lo racconta davanti ai giudici di primo grado del tribunale di Lucca, dove si svolge il processo per la strage del 29 giugno 2009 a Viareggio. “La lettera è datata 17 ottobre 2001, spedita alla direzione di Ferrovie dello Stato per raccomandata. Riscontri non ne abbiamo mai avuti”. Quella barriera protettiva, che dopo la strage di Viareggio è stata eretta, forse avrebbe evitato la distruzione della strada che corre a fianco della ferrovia. O limitato danni e vittime: che alla fine furono 32. Tra i 76 firmatari di quella richiesta, figurano anche Andrea Falorni, la moglie Maria Luisa Carnazzi e Mario Pucci. Tutti e 3 hanno perso la vita il 29 giugno.
E il ricordo dell’uomo sprofonda proprio nell’incubo di quella sera, che rivive nell’aula del Polo fieristico di Lucca davanti ai pm Giuseppe Amodeo e Salvatore Giannino, agli avvocati di parte civile e a quelli dei 33 imputati. Pellegrini è un sopravvissuto. Quando le fiamme iniziarono a correre in via Ponchielli, lui fuggì scalzo, in pigiama, insieme alla moglie, come lui cardiopatica. La casa era già completamente invasa dal fuoco. “Saltammo un muro sul retro, a ripensarci non so neanche come abbiamo fatto” racconta. E accusa: “Davanti alla mia abitazione stazionavano sistematicamente convogli, vagoni, anche in estate nel pieno del caldo, con impresso il marchio del teschio. Di certo non trasportavano legna. In via Ponchielli avevamo timore di questi convogli che passavano a centinaia nell’arco di 24 ore. L’erezione di un muro di cinta avrebbe reso meno grave il bilancio dei 32 morti”. Dopo la testimonianza di Pellegrini, uno dei difensori ricorda che ”il progetto per la barriera antirumore era già in iter, ma è stata bloccato dalla Regione, che negò il permesso”.
Tra quelle vittime, c’è Emanuela Menichetti. Il ricordo di suo papà Claudio getta il freddo stanzone del Polo fieristico in un’atmosfera surreale. “All’ospedale di Cisanello, a Pisa, uno dei medici piangeva, perché non si era mai trovato in una situazione così. Il primario ci disse che non sapeva se la bimba sarebbe arrivata all’indomani. Mia moglie è saltata al collo del primario, poi è svenuta. L’hanno tenuta ricoverata per un giorno, sedata”.
La madre, Daniela Rombi, è la voce più agguerrita dei familiari, che rappresenta come presidente dell’associazione “Il Mondo che Vorrei”. Emanuela, prima di due figlie, morì a 21 anni per le ustioni riportate, dopo 42 giorni di agonia. I capelli mossi, gli occhi luminosi, il sorriso aperto: così appare ancora nella foto stampata sulla maglietta bianca che il papà indossa, mentre racconta ai giudici e ai pm Giuseppe Amodeo e Salvatore Giannino di quel giorno. “Il 29 giugno 2009 mi trovavo a casa, ero rientrato nel pomeriggio dalle vacanze con mia moglie. Mia figlia Emanuela era nel suo ufficio: 3 mesi prima, dimostrando grande coraggio, aveva aperto un’agenzia immobiliare, in un periodo che non era dei migliori”.
La sera Emanuela va a dormire in via Ponchielli, a casa di Sara Orsi, 25 anni, amica e socia. Moriranno entrambe, insieme a Roberta, 53 anni, madre di Sara. “Poco dopo le 3 del mattino – racconta Claudio Menichetti – arriva una telefonata sul cellulare di mia moglie, qualcuno le passa mia figlia, che dice: ‘E’ successo un incidente, un grande incendio, ma non ti preoccupare, non mi sono fatta niente’. La sua prima preoccupazione è stata di tranquillizzare noi. Ci venne detto di andare all’ospedale di Cisanello. Abbiamo aspettato fino alle 7:30 per sapere il suo stato. Era tutto un viavai, erano ricoverati altri 4 ustionati”.
La situazione della ragazza è drammatica: ustioni sul 98 per cento del corpo. Parte la catena per trovare sangue e piastrine. “In ustione vai in emorragia in continuazione, c’è tanto bisogno di sangue” spiega il papà di Emanuela. Intanto Daniela, la mamma, tiene un diario di quei giorni, attaccata alla speranza che la figlia sopravviva. Ma le pagine si fermano al giorno 42, quando una telefonata dall’ospedale raggiunge i coniugi Menichetti mentre sono in chiesa: l’encefalogramma di Emanuela è piatto. Si precipitano da lei. “Quella è stata l’unica volta che sono entrato nella sua camera. Daniela invece è entrata più di una volta, il medico voleva che la si incoraggiasse, che le si parlasse dal vetro: era nella semi-incoscienza, muoveva gli occhi, sentiva, lacrimava, non era completamente sedata. Sono entrato, l’ho salutata”.
Il papà di Emanuela non trattiene più il pianto. “Era splendida, era dolce, una ragazza molto matura, che non ha mai sgarrato” la ricorda il papà, che dopo il 29 giugno ha avuto gravi problemi di salute. “Prendo pasticche per la pressione, che da allora è peggiorata. Siamo stati dagli psichiatri. Mia moglie usa dei tranquillanti. Io li ho assunti per due mesi, poi ho voluto affrontare la cosa con la mia coscienza ben lucida e non prendere nulla che potesse diminuire la mia rabbia. Voglio essere cosciente del fatto che mi è successa una cosa che non doveva accadere e che non dovrà mai più accadere”.
Il suo legale, l’avvocato Carloni, vuole mostrare in aula la foto del corpo straziato di Emanuela e una lettera che la ragazza aveva scritto ai genitori per celebrare il loro anniversario di matrimonio. “Non me la sento di leggerla in pubblico” fa sapere il padre. E il giudice Gerardo Boragine: “Sono d’accordo con lei, per il futuro vi invito a ridurre al minimo questo tipo di testimonianze. Acquisiamo la foto senza esibirla, il teste mi pare abbastanza straziato”.