“Vedevo di notte in tv le finali, con mio fratello”, ha detto Marco Belinelli dopo la quarta vittoria contro gli Oklahoma City Thunder. Ora le giocherà da protagonista sul parquet. A partire da gara-1 di giovedì notte, il giocatore dei San Antonio Spurs sarà il primo italiano a disputare le Finals per il titolo Nba, la più grande giostra sportiva del mondo.

E ci arriva da protagonista, dopo una stagione regolare chiusa con 11.4 punti di media (43% da 3) e la “notte dei sogni” durante il week end dell’All Star Game, dal quale è uscito come vincitore della gara di tiro da 3 punti. Una cavalcata da incorniciare dopo anni trascorsi alla ricerca di una franchigia che riuscisse a esaltare le sue qualità da tiratore. L’ha trovata in Texas, forse non a caso nella squadra più “europea” dell’Nba. Questione di fiuto, anche, perché il “Beli” – che negli States hanno ribattezzato Rocky per la sua somiglianza con Sylvester Stallone – in estate ha rifiutato offerte più vantaggiose, certo che il posto giusto per sognare in grande fosse San Antonio. Ha avuto ragione lui. Come aveva avuto ragione quando dopo le prime due stagioni in Nba in tanti caldeggiavano un ritorno da protagonista in Europa e lui ha invece insistito e lavorato sodo per trovare la sua dimensione nel palcoscenico più prestigioso al mondo.

Il passaggio chiave nella sua carriera è stato a New Orleans, dove ha trovato la fiducia di coach Monty Williams che lo definì “un mostro” per l’applicazione messa sul parquet ripagandolo con il quintetto. Poi nell’estate del 2012 – dopo il rifiuto dell’anno precedente – il passaggio ai Chicago Bulls e ora San Antonio, agli ordini di un allenatore che predilige gioco ordinato e uso della testa piuttosto che l’assalto fisico. Accanto a lui tre dei più forti giocatori degli ultimi dieci-quindici anni di Nba (Tim Duncan, Tony Parker e Manu Ginobili) e un plotone a supporto capace di portare tanta acqua al mulino di coach Popovich.

Nato ventisette anni fa a San Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna, Belinelli inizia a giocare nella Virtus dove a 15 anni entra già nel giro della prima squadra con Tanjevic. Poi il fallimento delle ‘V nere’ e l’approdo alla Fortitudo, altra sponda della città felsinea, che “il Beli” trascina in finale di Eurolega nel 2003/04 e alla vittoria del secondo scudetto della Effe nel 2004/05. Nel 2007 il passaggio dall’altra parte dell’oceano grazie ai Golden State Warriors dove resta due anni senza lasciare impronte pesanti. Cerca il rilancio a Toronto accanto ad Andrea Bargnani, prima del trasferimento chiave agli Hornets. Da quel momento è un crescendo: arriva a 10.4 punti di media ed esordisce nei play off per il titolo, lo scorso anno con Chicago supera il primo turno e ora, grazie al 4-2 ai Thunder sigillato stanotte, sfida i Miami Heat di LeBron James per vincere il titolo.

“Dedico le Finals all’Italia”, ha detto Marco. Da qui si risponde nell’unico modo possibile: sveglia puntata in piena notte per seguire la cavalcata dei suoi Spurs, che devono vendicare la rocambolesca sconfitta nell’atto finale della scorsa stagione. I detrattori – riprendendo il rumore della pallone che si infrange sul ferro – lo chiamavano “Sdeng” perché dicevano segnasse poco. L’italiano d’America li ha già smentiti a suon di sudore, caparbietà e canestri. E ora vuol vedere anche che effetto fa guardare il mondo da lassù, con un anello al dito.

Twitter: @AndreaTundo1

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