Quando Obdulio Varela abbandonò il Maracanà piangeva come gli oltre 200mila brasiliani in tribuna, arrivati per sbrigare la pratica Uruguay: una pura formalità. I carri per un carnevale fuori stagione erano pronti, i quotidiani festeggiavano la vittoria prima che la partita si giocasse, Zizinho e gli altri giocatori venivano già osannati come divinità. Un popolo intero si sentiva sul tetto del mondo. I novanta minuti della finale Brasile-Uruguay dovevano essere la celebrazione di una vittoria data già per acquisita: “Omaggiamo i campioni del mondo”, recitavano i manifesti affissi sui muri dello stadio. La Selecao in mezzo alla sua gente, nella sua terra, la terra del futebol. Si trasformò nella più grande tragedia sportiva che il Brasile abbia mai vissuto.
“Quel giorno ho compreso cos’è la tristezza”, raccontò poi Varela, centromediano uruguagio abituato a spezzare le trame avversarie che finì per sgretolare i sogni carioca, capovolgendo il finale già sceneggiato di quella edizione della Coppa Rimet. Piangeva perché il suo sovvertire il pronostico aveva distrutto un’intera nazione. Rio de Janeiro, 16 luglio 1950. Capitan Varela è il granello di sabbia, è la folata di vento che scompagina la storia e scrive un epilogo diverso. Un urlo ai suoi compagni, l’incitamento a giocare come se i duecentomila sugli spalti non ci fossero. Nessuno aveva creduto che l’Uruguay avesse una sola possibilità di farcela, nonostante fosse stata fino ad allora una delle nazionali più dominanti nella pur breve storia della Coppa. In uno stadio diverso, probabilmente, l’atteggiamento della Selecao sarebbe stato meno spavaldo.
Al minuto 48 Friaca porta comunque in vantaggio i padroni di casa. Tutto si sta compiendo, eppure è proprio in quel momento che il destino prende una strada non prevista. La sterzata è di Varela: carica i suoi, li invita a non mollare. E’ una scintilla, l’Uruguay si accende. Al 66esimo arriva la fiammata: Alcides Ghiggia ispira Juan Alberto Schiaffino. Gol. Uno a uno. Iniziano a scricchiolare le certezze del Brasile, squadra e nazione. Dodici minuti più tardi tocca proprio a Ghiggia, imbeccato da Julio Gervasio Perez: Uruguay in vantaggio. E’ l’incendio che spegne il Maracanà. Un quarto d’ora dopo la Celeste è campione del mondo nel silenzio spettrale del dello stadio, che contagia l’intero Paese. “Era tutto previsto, tranne il trionfo dell’Uruguay”, dirà Jules Rimet che in un clima surreale uscì dagli spogliatoi con la coppa in mano per la cerimonia di premiazione. Fu una consegna sbrigativa.
L’inno non venne eseguito perché la banda non aveva neanche la partitura. Che il Brasile potesse uscire sconfitto era considerata più di un’opzione remota. Semplicemente l’eventualità non era neanche stata presa in considerazione. Svenimenti e lacrime fotografarono come Varela aveva saputo rovesciare la storia, dimostrando che le partite bisogna giocarle per conoscere i nomi di vincitori e vinti. E’ la regola base di qualsiasi sport. Quel giorno il Brasile commise un peccato mortale: la dimenticò. Perfino Varela non riuscì a festeggiare: pianse, non di gioia. La tristezza è contagiosa, soprattutto quand’è così profonda e vera. Il giorno dopo i giornali brasiliani titolarono “Nunca maìs”, mai più. Alcuni giocatori caddero in depressione, il portiere Moacir Barbosa, capro espiatorio per la disattenzione sull’azione del 2-1, dirà nel 2000: “In Brasile la pena massima è trent’anni, quella che sto scontando io dura da cinquanta”. Il prossimo 13 luglio al Maracanà si torna a giocare la finale di un Mondiale. Sessantaquattro anni dopo, il Brasile vorrà esserci ma scenderà in campo con colori di maglia diversi dai protagonisti di allora. Il verdeoro che conosciamo venne adottato per cancellare la divisa bianca usata fino a quel maledetto 1950. Nel frattempo la Selecao è diventata per cinque volte campeao do mundo. Da giovedì insegue la sesta. Si decide tutto lì, questa volta davanti ad ‘appena’ 78mila spettatori. Nunca maìs. Obdulio Varela permettendo.