I peggiori sospetti sono stati confermati: a bruciare vivo Mohammad Abu Khudair, il sedicenne palestinese di Gerusalemme Est (Territorio occupato secondo l’Onu) trovato morto la settimana scorsa in un bosco, sono stati alcuni estremisti di destra ebrei israeliani, nonché ultras del Beitar Jerusalem. Anche in Israele le curve degli stadi ospitano hooligan violenti e politicizzati. “Quelli” del Beitar però si sono sempre distinti per la loro anima nera, per l’odio nei confronti del diverso, dello straniero. Per il razzismo di cui vanno fieri, mostrato sugli spalti a partire dagli striscioni che agitano come fossero un estratto della Bibbia.
L’esatto opposto dei fan dell’Hapoel Tel Aviv, la squadra nata dal sindacato dei lavoratori, di sinistra, che tuttora appartiene ai suoi tesserati e ha sempre ingaggiato calciatori di colore, arabo-israeliani e arabi, senza che un solo tifoso avanzasse la ben che minima critica improntata sulla nazionalità di origine degli atleti. Anzi sulla “razza”.
Quando, lo scorso anno, anche Arcadi Gaydamak – il miliardario israelo-russo proprietario del Beitar – aveva espresso l’intenzione di fare lo stesso, cioè di acquistare due giocatori ceceni, Zaur Sadayev e Dzhabrail Kadiyev, i tifosi, durante il match contro il Bney Yehuda, avevano reagito intonando canti razzisti e islamofobici (dato che la maggior parte dei ceceni è di religione musulmana) ed esibito scritte incentrate sul mantenimento della “purezza etnica” del Beitar: “Beitar pura per sempre”, “Morte agli arabi”, “70 anni di principi”.
La squadra nacque prima della fondazione di Israele dal movimento conservatore di Zeev Jabotinsky. Ma anche uomini politici di centro e di centrosinistra hanno il cuore che batte per il Beitar. Ehud Olmert, l’ex premier e sindaco di Gerusalemme condannato per corruzione, che aveva addirittura il suo palco personale allo stadio Teddy Kollel, l’anno scorso dichiarò: “Non assisterò più a una partita finché queste squadracce non verranno rimosse dal nostro campo o diventeremo loro complici”. Si riferiva soprattutto alla squadraccia che si autodefinisce “La Familia”, il gruppo più violento e razzista. Che l’8 febbraio del 2013 diede fuoco agli uffici del Beitar, incenerendo i trofei collezionati negli ultimi venti anni dal club.
“La Familia” ama scagliarsi appena può contro i calciatori del Bnei Sakhnin perché arabo-israeliani, ossia i palestinesi che vivevano su quello che ora è il territorio israeliano e sono riusciti a rimanerci, ottenendo la cittadinanza, ma che si sono sempre sentiti cittadini di serie B e, da due giorni, dopo decenni di silenzio, sono scesi in piazza. “Immaginate cosa sarebbe potuto succedere se delle squadre in Inghilterra o in Germania avessero annunciato che un ebreo non avrebbe potuto fa parte della squadra. Noi, il popolo ebraico, che dovremmo condurre la battaglia contro il razzismo e il fascismo; noi, che siamo quelli che portano ancora le cicatrici di questi fenomeni e li porteremo sul nostro corpo per le generazioni a venire, non possiamo e non dobbiamo rimanere in silenzio”, dichiarò tempo fa il deputato del Likud, il partito conservatore di cui è leader il premier Netanyahu. Oggi Reuven Rivlin è il nuovo presidente di Israele e succederà a Shimon Perez. Entrambi hanno condannato l’orribile omicidio di Mohammad, ricordando anche le profetiche parole del vice allenatore dei Beitar, Jan Talesnichov: “Danno fuoco agli edifici, prima o poi bruceranno la gente”.
C’è però chi non la pensa come lui. È il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, il falco segretario del partito ultranazionalista Israel Beitenu, che vive in una colonia e vorrebbe spedire nei Territori tutti gli arabo israeliani, anche lui fan del Beitar. Ieri ha rotto la partnership con il Likud perché il governo non ha ancora ordinato all’esercito di invadere Gaza a causa dei razzi che dalla Striscia stanno cadendo sulle cittadine del Negev, nonostante i bombardamenti aerei siano sempre più consistenti.
il Fatto Quotidiano, 8 Luglio 2014