L’ipotesi che lo scricchiolante welfare pubblico, sanità inclusa, possa diventare appannaggio delle compagnie assicurative non è solo un’idea avanzata da osservatori ed esperti come l’avvocato Marco Bona che ne ha recentemente parlato a ilfattoquotidiano.it. Ci stanno pensando da tempo anche gli stessi assicuratori, a partire dalla Unipol delle coop che non ne fa mistero. “Appare ormai maturo il tempo di una nuova integrazione tra pubblico e privato, capace non solo di garantire la tutela sanitaria e sociale delle persone, ma anche di favorire la crescita economica, a partire dai territori”, ha detto commentando i risultati del rapporto Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche socialì di Censis e Unipol, che è stato presentato mercoledì a Roma.

“Se sapremo superare i pregiudizi consolidati, il pilastro socio-sanitario, inteso non più solo come un costo, può divenire una solida filiera economico-produttiva da aggiungere alle grandi direttrici politiche per il rilancio della crescita nel nostro Paese”, ha aggiunto Stefanini. “Nei lunghi anni della recessione le famiglie italiane hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare pubblico”, gli ha fatto eco Giuseppe Roma, direttore generale del Censis. “Oggi questo peso inizia a diventare insostenibile. Per questo è necessario far evolvere il mercato informale e spontaneo dei servizi alla persona in una moderna organizzazione che garantisca prezzi più bassi e migliori prestazioni utilizzando al meglio le risorse disponibili”.

Secondo il rapporto che si basa su indagine svolta dal Censis per Unipol, nell’ultimo anno la spesa sanitaria privata ha registrato un -5,7%, il valore pro-capite si è ridotto da 491 a 458 euro all’anno e le famiglie italiane hanno dovuto rinunciare complessivamente a 6,9 milioni di prestazioni mediche private. Per la prima volta è diminuito anche il numero delle badanti che lavorano nelle case degli anziani bisognosi: 4mila in meno nell’ultimo anno. Sono i segnali di un’inversione di tendenza rispetto a un fenomeno consolidato per cui le risorse familiari hanno compensato per anni un’offerta del welfare pubblico che si restringeva. Tra il 2007 e il 2013 la spesa sanitaria pubblica è rimasta praticamente invariata (+0,6% in termini reali) a causa della stretta sui conti dello Stato. Era aumentata, al contrario, la spesa di tasca propria delle famiglie (out of pocket): +9,2% tra il 2007 e il 2012, per ridursi però del 5,7% nel 2013 a 26,9 miliardi di euro. Quanto al futuro, l’allungamento dell’aspettativa di vita, il marcato invecchiamento della popolazione, le previsioni di incremento delle disabilità e del numero delle persone non autosufficienti prefigurano bisogni crescenti di protezione sociale.  

“Negli anni a venire l’incremento della domanda di sanità e di assistenza proseguirà a ritmi serrati. Una domanda che l’offerta pubblica però non potrà soddisfare. C’è già oggi una domanda inevasa di cure e di assistenza a cui il sistema pubblico non riesce a fare fronte”, è stata la sintesi in sede di presentazione del rapporto. Secondo il quale “integrare pubblico e privato diviene, così, un’opportunità rilevante, per compensare una domanda cui la sola sfera pubblica non è più in grado di fare fronte”. In particolare l’idea è quella “di un’integrazione tra offerta pubblica e strumenti assicurativi (che permettano di sottoscrivere polizze a costi accessibili per poter godere in futuro di servizi di assistenza, di cura e di long term care) e di intermediazione organizzata e professionale di servizi” che “diventa quanto mai attuale”.

Anche perché, sottolinea il rapporto “l’Italia resta una delle poche economie avanzate in cui la spesa out of pocket intermediata, ovvero coperta da assicurazioni di tipo integrativo o da strumenti simili, rappresenta una quota molto bassa del totale della spesa sanitaria “di tasca propria”. L’Ocse stima che in Italia l’out of pocket intermediato sia appena il 13,4% del totale, a fronte del 43% della Germania, del 65,8% della Francia, 76,1% degli Stati Uniti. Si tratta di un dato che fa molto riflettere e che lascia immaginare lo spazio che esiste per allargare il perimetro di azione sia del pubblico che degli operatori privati, ma soprattutto per ridisegnare gli equilibri tra i due attori”.

In concreto “occorre naturalmente stabilire le modalità precise per attivare tale percorso di integrazione, non tralasciando che molti fenomeni di cambiamento socio-demografico variano ed assumono sfumature differenti a seconda dei territori in cui si articola il Paese. Coinvolgere, pertanto, gli Enti territoriali nella definizione di processi di integrazione pubblico-privato, ma soprattutto coinvolgerli nella definizione di strumenti integrativi di welfare può essere una pista di lavoro per attivare servizi maggiormente rispondenti ad uno scenario in cambiamento. In questa prospettiva si pongono le proposte, di alcuni operatori privati, in primis Unipol, di attivare fondi sanitari integrativi di tipo territoriale, con una forte compartecipazione degli Enti locali”.

Un’ipotesi che dovrebbe interessare a tutti gli attori in campo, incluso il ministero del Lavoro di Giuliano Poletti che ha partecipato alla presentazione dello studio insieme al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, se incorniciata nel quadro tracciato dal rapporto. Quello che parla di “una vera rivoluzione produttiva e occupazionale, utile a risollevare l’Italia dalla prolungata fase di stagnazione” proprio grazie all’integrazione degli strumenti di welfare pubblici con il mercato sociale privato, “puntando a valorizzare l’economia della salute, dell’assistenza e del benessere delle persone (la “white economy”)”. Considerato nell’insieme, sostengono le stime al 2012 del valore della produzione e dell’occupazione dei comparti afferenti alla white economy frutto dell’elaborazione Censis su dati Istat, Assobiomedica e Farmindustria riportata dall’analisi, il sistema di offerta di servizi di diagnostica e cura, farmaci, ricerca in campo medico e farmacologico, tecnologie biomedicali, servizi di assistenza a malati, disabili, persone non autosufficienti genera oggi un valore della produzione di oltre 186 miliardi di euro, pari al 6% della produzione economica nazionale, con una occupazione di 2,7 milioni di addetti. Numeri che non tengono ovviamente conto dei valori in ballo per il comparto assicurativo. Mentre resta fermo, sempre secondo lo studio, che “è evidente che la modernizzazione e la crescita della white economy, non possono passare solo per un investimento pubblico ma, viceversa, dovrebbero passare attraverso l’attivazione di un’offerta privata di servizi e di strumenti assicurativi e finanziari privati, di tipo integrativo, coordinati con l’offerta pubblica e sottoposti, ovviamente, alla vigilanza di organismi indipendenti competenti per materia”.

Un’idea che è piaciuta molto al ministro della Salute, Lorenzin che ha commentato che sulla sanità integrativa “non siamo all’anno zero” e dal prossimo autunno si costruirà “questo pilastro importante nella riorganizzazione del sistema sanitario“. “Dopo i costi standard e il Patto per la salute già realizzati” per il ministro è questo il prossimo importante passo da fare: organizzare “la sanità integrativa, sia con i fondi e sia con le assicurazioni, in modo tale da creare una complementarietà anche per quanto riguarda il settore pubblico”. Lorenzin immagina anche “dei fondi aperti. Penso ai lavoratori che perdono il lavoro, a come accompagnarli nei cambi di professione” . Si tratterà quindi di un sistema che non si va a sovrapporre “al servizio sanitario nazionale, ma dovrà essere integrato in una logica di sviluppo del sistema per creare anche una cultura del risparmio, utile all’assistenza per quando si sarà più anziani”. Inoltre, dovrà essere concepito in una logica di integrazione socio-sanitaria “penso – ha detto – non soltanto all’aspetto di sanitario ma anche di servizi alla persone”.

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