Minuto 122′. La Germania è avanti di un gol. Punizione per l’Argentina. Batte Messi. E’ l’ultima speranza per la Seleccion, come squadra e come nazione. La Pulce prende la rincorsa, tira, altissimo. Lionel non è Maradona: non è decisivo. I tedeschi, invece, sono campioni del mondo. L’Albiceleste si ferma a un passo dalla storia, dopo una finale in cui ha sprecato tanto e fatto soffrire ancor di più i panzer, favoriti della vigilia. Lo stadio Maracanà, teatro della finale, è in silenzio. Le strade di Rio anche. E’ tutto un brulicare di maglie e bandiere biancocelesti. Gli argentini ci sono, ma non si sentono. Perché hanno perso. Erano oltre 100mila in tutta Rio, erano arrivati nella città carioca con ogni mezzo possibile. Hanno cantato e ballato nel sambodromo e alla Fifa Fan Fest di Copacabana fino all’inizio della finale. Ma hanno perso. Amaramente. E non possono festeggiare. Per la gioia dei brasiliani, che solo al 112esimo minuto di gioco hanno potuto tirare un sospiro di sollievo: gli odiatissimi rivali di Buenos Aires non alzeranno la Coppa del mondo in casa loro, al Maracanà, il tempio del calcio carioca.

La festa dei tedeschi è sobria: strette di mano, sorrisi e abbracci. Come in un’amichevole estiva. Come se fosse dovuto. Come se fosse tutto preventivato. Giusto così: sono i migliori, hanno meritato il quarto titolo del mondo, che permette loro di raggiungere l’Italia nella speciale classifica iridata. Particolare non di secondo piano: ha segnato Mario Gotze, 22 anni, giovanissimo come la maggior parte dei suoi compagni. Il messaggio è chiaro: la Mannschaft rischia di dominare ancora per molti anni. Il segreto? La programmazione. Il calcio italiano, se ha capacità di intendere (e in tal senso i dubbi sono leciti), dovrebbe prendere esempio. Ma questa è un’altra storia.

Sugli spalti la festa è raccolta nello spicchio dei supporters teutonici. In tribuna d’onore Angela Merkel gongola. Djlma Rousseff anche (nonostante i fischi dello stadio). Se avesse vinto l’Albiceleste la sua campagna elettorale sarebbe stata rovinata da quell’immagine-incubo: lei, la presidentessa dei brasiliani, che consegnava la coppa del mondo nelle mani di Mascherano, argentino, al Maracanà. Roba da perdere dieci punti percentuali negli exit poll. E invece così non è stato. I panzer hanno trionfato. Ed entrano nella storia. Oltre al quarto titolo, infatti, portano a casa un altro primato: sono la prima squadra europea a vincere un Mondiale in Sudamerica, che non porta la coppa a casa dal 2002. Dodici anni: iniziano a esser troppi per una scuola che ha dominato per decenni il calcio mondiale. E’ mancato il Brasile, certo, mai protagonista nel torneo costruito per vincere. Ma quest’Argentina ha dimostrato di saper superare col cuore, la grinta e l’organizzazione una Germania nettamente più forte. Il popolo albiceleste piange, ma può essere soddisfatto. A Berlino è festa grande. A Copacabana meno, ma comunque si respira l’artmosfera del pericolo scampato.

L’atto finale del mondiale regala tre istantanee: un tramonto d’oro che fa da cornice al Cristo del Corcovado colorato di verdeoro con il Maracanà e i suoi fuochi d’artificio a fare da sfondo. Angela Merkel a esultare come neanche in curva all’Allianz Arena (e Djlma a guardarla con tanta, tantissima invidia). E Joseph Blatter a parlottare in tribuna d’onore con Vladimir Putin: Brasile 2014 è finito, il suo pensiero è già a Russia 2018 (e alle elezioni per la presidenza Fifa, in cui corre per la quinta volta consecutiva). C’è anche un quarto scatto. Ma lo vedono in pochi. Lionel Messi (comunque vincitore del Pallone d’Oro come miglior giocatore del mondiale: troppo) è solo in mezzo al campo, testa bassa e sguardo mesto. Lui lo sa: non è meglio di Pelè, non ha vinto come Maradona. 

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