E’ un dissenso che, con le ore e i giorni, si fa ostacolo sempre più solido. Pier Luigi Bersani ufficialmente smorza i toni (“la strada del Senato non elettivo è stata presa, chi fa ostruzionismo deve inchinarsi anche a una volontà di una maggioranza in un consesso”), ma nella sua ala interna al Nazareno c’è tutto tranne la voglia di “inchinarsi” a Renzi e alla “sua” riforma. Che una parte del Pd non digerirà mai, nonostante i proclami di facciata. Un bersaniano di ferro come Alfredo D’Attorre, esponente di spicco di Area riformista (per intendersi, i “cuperliani“), ha risposto in modo insolitamente brusco a chi come Roberto Giachetti prima e come Matteo Renzi poi, ha minacciato lo spettro delle elezioni anticipate se al Senato non si cambierà politicamente marcia e, soprattutto, non si troverà la quadra sulle preferenze dell’Italicum: “Minacciare le elezioni se non passano le riforme – ecco la risposta di D’Attorre – è da Tafazzi…”.
Nessuno, infatti, nell’area sinistra del Nazareno, crede davvero che Renzi possa decretare lo show down in caso di sconfitta sul piatto delle riforme: come al solito, Napolitano non consentirebbe il ricorso alle urne durante la presidenza italiana del semestre europeo. E anche dare il via a un rimpasto, che molti auspicano nel Pd per riequilibrare gli assetti interni al partito, potrebbe trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Ora che Berlusconi può contare addirittura su un’assoluzione, è chiaro che la sua volontà di ritornare in prima fila metterebbe il governo sotto la pressione indebita degli arcoriani, che sognano – oggi – le larghissime intese per arrivare al 2018 non dagli scranni dell’opposizione “costruttiva”, bensì dalla cabina di comando di alcuni posti di governo.
Insomma, comunque la si voglia vedere, per Renzi la via è assai più stretta dei suoi proclami. Il dubbio, nella testa del premier, è un po’ questo: mi conviene di più tirare a campare, accettando i tempi del Parlamento, oppure rischiare tutto, tornare al voto e scaricare la colpa sulla “palude”?
La “palude” non è solo la riforma del Senato. E’ l’Italicum il vero nodo del contendere interno al Pd. Soprattutto, sono le preferenze e la composizione delle liste, che nessuno della sinistra del partito, oggi, vuole lasciare interamente nelle mani del “nominatore” Renzi. Di qui il fuoco incrociato, il mostruoso ostruzionismo che si è prodotto sulla riforma del Senato con la presentazione di quasi 8 mila emendamenti che sono un dato politico che nessun contingentamento dei tempi potrà spazzare via. Dice, infatti, Gianni Cuperlo, squarciando il velo dell’omertà dettato dai tecnicismi e dai regolamenti parlamentari: “Presentare 8mila emendamenti significa voler bloccare la possibilità di fare le riforme”.
Più in profondità, il messaggio a Renzi suona così, per la stessa voce di Cuperlo: “Bisogna ritoccare la riforma elettorale, perché è un errore grave immaginare, a regime, un modello nel quale a un Senato non elettivo si accompagna una Camera con i deputati ancora una volta “nominati” dalle segreterie dei partiti. Per evitare questa ferita, è fondamentale tenere bene in vista il legame strettissimo tra il pedale della riforma costituzionale e quello della nuova legge elettorale, in particolare nei tre punti che esigono delle modifiche, soglie, liste bloccate e l’equilibrio di genere nella rappresentanza”.
Più chiaro di così. Anche perché nessuna mediazione e’ stata trovata in capigruppo al Senato; la maggioranza non ha accolto la richiesta, avanzata da alcuni firmatari degli emendamenti, di mettere subito nero su bianco le modifiche di mediazione che avrebbero consentito una riduzione del volume delle modifiche presentate. Il ‘muro contro muro’ è dunque tutt’altro che risolto, la prova di forza, tutta interna al Nazareno, è politicamente più viva che mai. L’elemento di rottura resta non tanto l’elettività dei senatori, quanto il potere di composizione delle liste nella nuova legge elettorale. Certo, Renzi ha assicurato che il Pd farà comunque le primarie, ma un conto è inserirle per legge dentro l’Italicum, un altro ridurle a pura liturgia interna al partito. Un conto è cercare di tenere buona la minoranza interna, un altro è far digerire una nuova modifica del patto del Nazareno a Berlusconi.
La foto finale della situazione la regala un Vannino Chiti se possibile ancora più critico di qualche settimana fa: “Il dibattito sulle riforme sta prendendo una deriva negativa che non conviene a nessuno – commenta – l’imposizione della tagliola è un errore gravissimo. Quando la destra nel 2005 impose il contingentamento dei tempi su una riforma della Costituzione, noi della sinistra contestammo duramente quella decisione”. Ora, per paradosso, è proprio la maggioranza di governo che impone di far presto per consentire a Renzi di arrivare in Europa al Consiglio Europeo del prossimo 30 agosto con in mano il feticcio di una riforma che convince solo i renziani di stretta osservanza. Cioè: non tutto il Pd, non tutto Ncd, non tutta Forza Italia. Per non parlare degli altri. Alla Camera, giurano gli uomini di Bersani, sarà tutto un altro film. Escluso il lieto fine.