Ebola comincia a fare paura anche a migliaia di chilometri di distanza. In un paese dagli innumerevoli legami – storici e attuali – con l’Africa occidentale come il Regno Unito, l’esecutivo guidato da David Cameron entra in allerta. Nel pomeriggio del 30 luglio, il nuovo ministro degli Esteri, Philip Hammond, ha presieduto un “Cobra meeting”, una di quelle riunioni interministeriali per questioni di urgente priorità di solito tenute in caso di guerre o attacchi terroristici. Il tutto dopo aver detto che la Gran Bretagna si trova di fronte a una “minaccia”. Argomento, chiaramente, l’ebola e le possibili tipologie di prevenzione di una malattia che potrebbe arrivare a Londra grazie a quelle decine di voli quotidiani dall’area fra Liberia e Nigeria. Paese, quest’ultimo, forte dei suoi 170 milioni di abitanti, che fa affari con il Regno Unito (e vice versa) con un continuo scambio di figure professionali in volo da un paese all’altro, alle quali si uniscono le decine di migliaia di nigeriani che vivono sotto il Big Ben.
Londra, appunto, anche se ieri – riporta il Daily Mail – l’allarme si è avuto più a nord, a Birmingham, dove un uomo in arrivo dalla Nigeria via Parigi è stato portato in ospedale, fra mille precauzioni, per essere sottoposto ai test. Così come è successo dopo poche ore in una ex colonia britannica, Hong Kong, dove – riporta il China Daily – una donna appena tornata da un viaggio in Africa è stata male ed è stata ricoverata. In entrambi i casi i test sono risultati negativi, ma il tutto è comunque il sintomo di una paura globale che comincia a montare.
Uscendo dal Cobra meeting, il ministro Hammond ha comunque voluto tranquillizzare l’opinione pubblica. Nulla è impossibile, ma al momento è difficile che il virus dell’ebola – letale fino al 90% dei casi ma che ha bisogno di scambio di fluidi corporei, saliva compresa, per propagarsi – possa diffondersi in modo di massa nel Regno Unito, nel caso arrivi. Una delle agenzie del ministero della Salute di sua maestà, comunque, già a inizio luglio aveva diramato un avviso a tutti i medici di famiglia britannici, dicendo loro di stare attenti a eventuali casi. L’Africa è lontana, ma è anche vicinissima grazie ai voli e ai viaggi di piacere e di business. Così nei giorni scorsi i tabloid inglesi si sono anche chiesti in quale città europea possa arrivare per primo il virus, mettendo nel top della lista Parigi e Londra, entrambe metropoli multiculturali e soprattutto punti di riferimento di molte comunità africane emigrate in Europa.
Il passato coloniale vuol dire anche questo, e basta farsi un giro nelle due città più grandi del continente per rendersene conto. Uscendo dalla riunione con l’esecutivo Hammond ha detto alla stampa che “al momento non risultano britannici infetti, nel Regno Unito o all’estero, ma questa è una vera minaccia”. Rimane il fatto che, al momento, l’Organizzazione mondiale della sanità non ha ancora sconsigliato ufficialmente di viaggiare verso Guinea, Liberia e Sierra Leone. Neanche il Foreign Office, il ministero degli Esteri, ancora si azzarda a farlo, forse anche per evitare l’allarmismo e il panico. Ma in Africa si continua a morire di ebola, ora anche in Nigeria dove nei giorni scorsi si è avuto il primo caso e dove un ospedale è stato messo in quarantena, nessuno può entrare e uscire. Si continua a morire, come a Gaza, come in Ucraina e in altre parti del mondo, seppur per diversi motivi. Ma questa malattia – diventata tristemente famosa anche per diversi film – è molto più temuta di tante altre calamità che interessano il genere umano, una sorte di peste – in miniatura – degli anni 2000. La Bbc, la televisione pubblica britannica, ha mandato in onda un servizio da un centro di cura in Liberia. Persino i sempre posati giornalisti anglosassoni si sono detti spaventati.