Questo è il ritratto di Robin Williams che avevamo pubblicato lo scorso anno nel giorno della sua morte. Lo riproponiamo, arricchito di una gallery, per ricordare il grande attore americano.
Potrà sembrare una frase fatta, un’espressione di circostanza, ma Robin Williams è stato davvero l’attore dai mille volti, uno dei più duttili della storia del cinema, senza dubbio il più duttile della sua generazione. Dotato di una comicità naturale per nulla banale e facile, nel corso della sua carriera è riuscito a spaziare da performance esilaranti a momenti di grande intensità drammatica, a riprova di un talento completo e ricco di sfaccettature. Il primo ruolo importante arriva in tv con la serie Mork & Mindy, nei panni di un alieno arrivato sulla Terra dal pianeta Ork. Una sitcom che entrerà nella storia della televisione e lancerà la stella di Robin Williams nel cinema hollywoodiano.
Uno dei primi successi sul grande schermo è Il mondo secondo Garp, tratto dal bel romanzo di John Irving, con Williams al fianco di Glenn Close e John Lithgow, anche se la vera e propria esplosione cinematografica arriva qualche anno dopo, nel 1987, con Good morning, Vietnam. Nei panni del poco convenzionale disc jockey Adrian Cronauer, Williams ha una delle sue prime occasioni per mostrare tutta la sua carica fisica e una mimica facciale che diventerà il marchio di fabbrica del suo stile. Ipercinetico al limite dell’ansiogeno, divertente fino alle lacrime ma dotato di uno sguardo morfologicamente malinconico, Robin Williams ha potuto spaziare senza fatica tra vari registri interpretativi senza mai perdere credibilità o efficacia. Nel 1988 arriva l’incontro con Terry Gilliam (interpreta il Re della Luna nel caleidoscopico Le avventure del Barone di Munchausen), ma il frutto migliore di questo incontro tra geni bizzarri è del 1991, con La leggenda del re pescatore, stralunato viaggio psicologico tra le miserie umane che vale a Robin Williams un Golden Globe e la terza nomination all’Oscar.
Nel frattempo, due anni prima, era uscito L’attimo fuggente, altro cult della sua carriera e forse troppo superficialmente elevato a simbolo della sua intera vita professionale. Intenso e trascinante, il film di Peter Weir ha avuto un successo clamoroso, divenendo il manifesto della libertà di espressione e di un ribellismo sano e vitale. Ma nel 1990, schiacciato dai successi precedenti e successivi, esce anche Cadillac Man, ritratto efficacissimo di un mediocre venditore di auto usate, con Robin Williams che mette in mostra un’altra sua dote universalmente riconosciuta: la capacità di mostrare le miserie dell’animo umano, il fallimento, la difficoltà di riconoscersi appieno, e di avere successo, nel sogno americano.
Avrebbe potuto fare lo schizzinoso, Robin Williams, e magari accettare solo grandi copioni. Invece no, tutt’altro: quando si innamorava di un progetto, a volte anche bizzarro e che forse rappresentava un passo indietro nella sua carriera, lui lo sposava entusiasticamente. È il caso del singolare Toys di Barry Levinson o anche di quello che probabilmente è il suo maggior successo popolare: Mrs. Doubtfire. Nei panni dell’attempata e corpulenta tata, Williams riafferma con enorme successo una fisicità che da sola basterebbe a giustificare una carriera così ricca di trionfi. Commedia leggera che più leggera non si può, resta comunque una delle sue più riuscite prove d’attore.
Nel 1996 è la volta di Piume di struzzo, remake americano de Il vizietto, con Williams nel ruolo che era stato di Ugo Tognazzi. Anche stavolta, per interpretare l’omosessuale Armand, si affida alla fisicità. Movimenti nervosi, braccia e mani che si agitano a rappresentare plasticamente il cliché gay, Williams regala un’altra perla, in un film forse sottovalutato perché paragonato all’originale, e con l’altrettanto eclettico Nathan Lane forma una coppia efficacissima. Nello stesso anno, visto che non di sola commedia vive un grande attore, diventa Osric nell’Amleto cinematografico di Kenneth Branagh, mentre due anni dopo, interpretando l’empatico dottor Sean McGuire in Will Hunting – Genio ribelle, riesce finalmente a mettere le mani sull’Oscar. Ovviamente, come accade troppo spesso nella storia di Hollywood, il riconoscimento arriva per un film che non è certo il migliore della sua carriera e che ha come merito principale quello di portare alla ribalta i giovani Matt Damon e Ben Affleck.
È del 1998, invece, l’interpretazione più struggente e drammatica di Williams, nel forse troppo ambizioso Al di là dei sogni di Vincent Ward. In un variopinto e al tempo stesso inquietante affresco dantesco, il grande attore americano fa i conti con la morte, la perdita, la fragilità della psiche umana, in un drammone strappalacrime che riesce comunque a lasciare allo spettatore un tormentato ma ostinato ottimismo.
Nel 2002, poi, arriva la metamorfosi migliore nella carriera di Williams: forse stanco di interpretare sempre personaggi positivi, ottimisti e travolgenti, infila una doppietta di interpretazioni superbe in due thriller psicologici di ottima fattura: One hour photo e Insomnia (al fianco di Al Pacino, per la regia di Christopher Nolan. Ora Williams è il villain della situazione, il cattivo, il personaggio odiato dallo spettatore. Ma anche in questo caso riesce a infondere ai personaggi una carica enorme di umanità, un concentrato intenso di debolezze e fragilità.
Gli ultimi dieci anni sono costellati di commedie e partecipazioni non indimenticabili a blockbuster ridanciani, con un Williams che forse per la prima volta nella sua carriera non riesce a trovare il personaggio adatto, la storia giusta. È stanco e depresso ma nel 2013 sorprende tutti con il ritorno in tv, dopo trent’anni, in The Crazy Ones, sitcom dai ritmi travolgenti cucita addosso alle sue migliori caratteristiche attoriali: comicità nonsense e fisicità portata all’eccesso. Fin qui la sua carriera, che è storia del cinema. Poi la morte. Che è cronaca nera, purtroppo.