“Genova fu chiamata la Superba e degna del passato ancor si serba”. L’hanno studiato tutti a scuola, in Liguria. Magari non un capolavoro letterario, ma un po’ ti gonfiava il petto. Pochi, però, hanno fatto davvero attenzione alle parole: si parla solo del passato. Ma il futuro e il presente? Genova non c’è più. E nessuno ha detto nulla. Adesso se n’è andato anche Il Secolo XIX, il “Monono”, come lo chiamano i genovesi. Un pezzo della città, come piazza De Ferrari, come via Prè. Quel foglio che vedevi nelle mani degli operai dei cantieri e in quelle della borghesia. È diventato di fatto torinese dopo 128 anni, comprato dall’arcirivale di un tempo, La Stampa. Senza che nessuno a Genova aprisse bocca. E dopo appena una settimana il direttore Umberto La Rocca è saltato. Si cambia.
Gli “invasori” sabaudi
Ora chi comanda è a Torino (città vicina, rivale): certo, tecnicamente si deve parlare di fusione. Ma in Piemonte hanno il 77 per cento. All’exproprietario resterà il 23. Parliamo di Carlo Perrone, ultimo discendente della famiglia dei signori dell’acciaio, oggi editore “puro”. Senza interessi in altri campi. Perrone ha sempre rispettato l’autonomia dei giornalisti. Un caso raro. Chissà se cambierà qualcosa: il rapido congedo di La Rocca suscita qualche timore tra i giornalisti. E adesso? Il quotidiano dovrebbe passare per tre mesi nelle mani di Alessandro Cassinis, oggi condirettore, stimato per le sue qualità umane e professionali. Ma poi? Si parla dell’arrivo di Luca Ubaldeschi, vice direttore della Stampa. Chissà come i genovesi prenderebbero questo sbarco in forze.
Una cosa è certa: fino a trent’anni fa Genova aveva tre quotidiani. Il Secolo XIX, che arrivava a vendere 150 mila copie. Il glorioso Lavoro, diretto nel Dopoguerra da Sandro Pertini. Infine il Corriere Mercantile. E oggi? Il Lavoro è l’inserto locale di Repubblica, mentre il Mercantile era già nell’orbita della Stampa e adesso rischia grosso. Ma il punto non è Il Secolo XIX, anche se è un pezzo dell’anima della città. E non sono nemmeno i quotidiani, pure se la scomparsa di giornali è un segno di crisi. Oltre a essere motivo di inquietudine vedere l’informazione in mano a persone senza radicamento locale. Il punto è che Genova sta scomparendo. Senza che nessuno ci abbia fatto caso, le leve del potere locale paiono ormai in mani esterne: per le elezioni regionali del 2015 in lizza ci sono finora Raffaella Paita (delfino di Burlando, spezzina) e Federico Berruti (sindaco di Savona). Il presidente del porto di Genova è uno spezzino (impensabile fino a pochi anni fa), quel Luigi Merlo marito della stessa Paita. Ancora: a guidare la Fiera di Genova c’è Sara Armella, savonese. E moglie del segretario regionale Pd (pure lui savonese).
Dopo l’irpino dei giocattoli arriva Viperetta da Roma
Pezzo dopo pezzo Genova si è sgretolata, come le torte di Panarello, lo storico pasticcere cittadino. Sono genovesi solo di nome le due squadre di calcio: il Genoa da anni in mano a Enrico Preziosi, signore irpino dei giocattoli. E adesso addio anche alla Sampdoria: sì, una delle ultime squadre formato-famiglia che con Paolo Mantovani aveva conquistato lo scudetto 1992. Poi era passata ai Garrone che l’hanno ceduta al romano Massimo Ferrero, soprannominato Viperetta. Un uomo distante anni luce dai suoi predecessori e dalla sensibilità genovese. Ma il calcio, in fondo, è vetrina. La vera diaspora genovese è quella dell’industria, dell’economia. Della cultura. Così si ritorna a parlare del trasferimento della Facoltà di Ingegneria navale di Genova, in passato una delle più prestigiose del mondo. Qui si sono formati i tecnici che hanno recuperato la Costa Concordia, quelli che hanno progettato Oracle (catamarano vincitore della Coppa America), senza contare i docenti del Mit di Boston che studiano le navi invisibili per la Marina Americana. Oggi a bassa voce si parla di trasferirla a La Spezia. Senza che la città insorga.
Poi ci sono le industrie: non passa giorno che una non sfugga. L’ultima pare la Piaggio Aeronautica, un secolo di tradizione e progetti geniali come il bimotore a eliche p-180 Avanti (oggi sta sviluppando un drone). Lo stabilimento di Genova sembra destinato a essere chiuso, poco importa che sia in una posizione preziosa, quasi unica: attaccato all’aeroporto. Ma il rosario è lungo: Ansaldo Industria è da anni in mani straniere, il settore energia passerà alla Cina. Per i Trasporti si sta studiando. “La nostra industria va bene, abbiamo avuto ottimi risultati”, racconta Claudio Gemme, ad di Ansaldo Industria. Aggiunge: “Lo Stato non ha creduto in noi. Altri all’estero lo hanno fatto”. E ora la società si chiama Nidec Asi, è giapponese. Gemme, che è anche presidente di Anie (Federazione Nazionale delle Imprese Elettrotecniche ed elettroniche) usa toni nostalgici, ma non nasconde l’amarezza: “Io appena posso torno a Genova, è una città con grandi potenzialità. Ma ha seguito un percorso disastroso, pochi hanno investito. Da fuori, ma anche dalla città. Ho sentito molti più mugugni che proposte”.
Lo stesso tono – in cui si colgono l’attaccamento e il rammarico – usato da Marco Bisagno, vicepresidente degli Industriali: “Genova ha una qualità di vita altissima. Un costo del lavoro basso. Ma se apro gli occhi mi pare di vedere la stessa città di venticinque anni fa”. Le soluzioni? “Bisogna cambiare atteggiamento, essere più propositivi. Ma è anche una questione di infrastrutture, collegamenti”. Come dice il senatore Maurizio Rossi (Liguria Civica): “Siamo nel cuore dell’Italia. Ma per arrivare a Roma ci vogliono cinque ore di treno e per Milano servono due ore per 150 chilometri. Lo stesso tempo necessario per andare da Roma a Milano. Così non possiamo competere”.
Travolte le industrie e anche le banche
Intanto la potente famiglia Malacalza ha spostato parte delle attività verso La Spezia. La Erg dei Garrone ha ormai ceduto le raffinerie per concentrarsi sulle energie alternative. E ancora: i Messina, altra storica dinastia portuale, secondo il giornale The Meditelegraph (del Secolo XIX) vorrebbero cedere l’attività terminalistica nel porto. Così come potrebbe fare un altro protagonista della vita portuale genovese, Aldo Spinelli. Che cosa resta a Genova? Gli scandali, di sicuro. Come quello che ha travolto la banca cittadina, la Carige, con i suoi passati vertici in galera o indagati. Come la stessa Regione, dove due ex vicepresidente sono stati arrestati e quasi metà dei consiglieri sono indagati per affari di rimborsi. Ecco cosa resta: tutti aggrappati alle poltrone. Per difendere un potere che non c’è più. Genova che non è più Superba. Almeno si ricordasse di quell’altra poesia, la Litania di Giorgio Caproni: “Genova che si riscatta. / Tettoia. Azzurro. Latta. / Genova sempre umana, /presente, partigiana”.
Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2014