L’episodio di
Visto, il settimanale di gossip che ha avuto l’infelice idea di
regalare un libro di barzellette sui gay, non va letto come uno scivolone, una mancanza di stile o peggio ancora come una trovata pubblicitaria per vendere di più. La storia di quel volumetto è l’ultimo capitolo, in ordine di tempo, di una lunga serie di “affettuosità giornalistiche” ai danni delle minoranze, nello specifico nei riguardi delle persone
LGBT. Basti pensare a tutte le volte in cui titoli e articoli riportano la dicitura “i
trans”, quando le persone di cui si parla hanno un’identità sessuale femminile. O quando la stessa parola viene utilizzata come sinonimo di prostituta. Ancora, si ricordino tutte le volte in cui si parla di
diritti, di famiglie di gay e lesbiche, e le immagini che corredano le pagine dei quotidiani sono popolate da fotografie di drag queen e go-go boys – che esistono, per carità, ma per capire l’enormità della cosa è come se si parlasse di femminicidio con immagini di fotomodelle in bikini, magari con fare ammiccante.
Pensiamo ancora al coming out di
Ian Thorpe, che decide di rivelare al mondo, dietro una precisa domanda, di provare attrazione per gli uomini. Il
Tempo titolò:
“Lo Squalo era un pesciolino rosa”. Sul
Foglio, invece, un recente articolo su
Mister Gay World è stato accompagnato da un’immagine del film Il vizietto. È così che viene trattata la gay community nel nostro paese: come freak da esibire ad uso e consumo dell’opportunismo mediatico. Il linguaggio che dovrebbe descrivere i fatti e creare conoscenza, informazione e (scusate la parolaccia) cultura, ruota attorno a
cliché, stereotipi e luoghi comuni.
Siamo d’altronde nell’Italia dei
Tavecchio,
di chi pensa che basti avere la pelle nera per amare precise produzioni ortofrutticole. Viviamo in una subcultura che riduce le minoranze a
fenomeni da baraccone destinate a ripetere gesti sempre uguali per cui un calciatore africano non può che amare le banane mentre i gay devono essere ossessionati dal sesso. Questo tipo di
semplificazioni rappresenta il bignami di un certo modo di interagire col mondo. Ed è rassicurante per un popolo che è agli ultimi posti di qualsiasi classifica, dalla lettura dei libri all’acquisto dei giornali, fino alla qualità delle università e della stessa democrazia rispetto agli altri paesi occidentali: risparmia dalla fatica di documentarsi, di mettere in discussione il castello di ignoranza e approssimazione in cui l’italiano medio e mediocre vive, trionfa e prolifera.
Premesso dunque che il volumetto in regalo su Visto si colloca nelle macerie del nostro milieu culturale, cercherò di spiegarvi perché, anche se la cosa non dovrebbe far più notizia o quanto meno scandalo, ha fatto arrabbiare il web e i social. Mentre pensavo alle parole per scrivere questo articolo, un mio amico su Facebook – Andrea Porta, per altro pure giornalista – mi chiedeva: perché le barzellette sui carabinieri sì e quelle sui gay no? Domanda fondamentale, che necessita di almeno due risposte. La prima: sarebbe buona norma evitare battute che offendono e ciò vale per gay, carabinieri, donne, immigrati, ebrei, ecc. La seconda: ben venga la satira su chiunque. Si pensi a Sensualità a corte di Marcello Cesena, parodia implacabile contro vizi e nevrosi di un certo mondo gay da cui per altro è molto amata. Ma deve essere satira, appunto, e non derisione di una condizione esistenziale che non è stata scelta. In conclusione, non si tratta di non voler barzellette di un certo tipo e di tollerarne altre. Si tratta di capire innanzi tutto che un conto è ironizzare su una categoria, professionale o di altro tipo, altra cosa è fare battute squallide su un modo di essere per cui ancora oggi si subiscono discriminazioni e aggressioni, purtroppo anche con gravi conseguenze. Il volumetto in questione suggeriva all’acquirente, sin dalla copertina, che i gay fanno sesso in modo sconsiderato e per dire questo si scomoda pure la categoria dello stupro.
Sarebbe interessante vedere quante copie ha venduto Visto per poter quantificare il danno nei confronti di chi verrà ancora una volta additato come un maniaco o come qualcuno da deridere. Magari a cominciare dalle scuole, dai luoghi di lavoro o per strada. Nei paesi civili certe cose non accadono e non c’è bisogno che altri spieghino l’enormità e l’idiozia intrinseca di certi gesti. Qui in Italia, nell’estate del 2014, siamo ancora fermi a questo grado di “civiltà”.