Un aborto negato e, poi, un cesareo praticamente obbligatorio, per un nuovo caso che in Irlanda riaccende il dibattito sulle interruzioni di gravidanza. Il quotidiano The Irish Times ha intervistato una donna, di origine straniera, che è stata sottoposta a cure forzate dopo essere rimasta incinta in seguito a una violenza sessuale avvenuta all’estero. Alla sedicesima settimana di gravidanza la donna chiese alla sanità irlandese di poter praticare un aborto, ma le fu risposto che l’unica soluzione sarebbe stata quella di andare in un altro paese.

“Tentai il suicidio”, ha rivelato al giornale la donna, che poi fu messa nelle mani di tre medici, compresi due psichiatri. Il bambino, nato poche settimane fa, sarà ora accudito dalle autorità irlandesi e per il momento non potrà essere messo in contatto con la madre. Ma in Irlanda è appunto polemica per una legge che non consente l’aborto in caso di violenza sessuale – come parrebbe essere questo il caso secondo il quotidiano – o di malformazioni del feto, permettendola solamente nel caso di “estremo pericolo” di salute per la donna incinta. La donna, che non può essere identificata per motivi legali, aveva pure pensato di andare in Inghilterra per interrompere la gravidanza, “ma mi fu detto che sarebbe costato più di 1.500 euro, soldi che non avevo”, ha detto.

Di qui la disperazione e il tentato suicidio, seguito poi da una diagnosi di malattia psichiatrica e dalla decisione dei medici di far nascere il bambino con un cesareo, dopo la permanenza della madre in una casa di cura, a causa delle sue tendenze suicide. La donna in seguito fece anche uno sciopero della fame, ma a nulla servirono le sue proteste. E il caso ricorda tristemente quello di Savita Halappanavar, cittadina irlandese di origine indiana, morta di setticemia all’ospedale di Galway, nell’ottobre del 2012, dopo che le era stato rifiutato un aborto. Anche a causa di quella morte, le autorità dell’isola procedettero a far varare una nuova legge, arrivata poi nel luglio del 2013: le prime norme che consentirono l’aborto in alcuni casi.

Ed ecco questo nuovo polverone mediatico che rischia di far scoppiare nuove proteste all’estero, davanti alle ambasciate irlandesi, così come avvenne a cavallo fra il 2012 e il 2013. Tuttavia rimane il fatto che, quando la donna espresse la sua intenzione di abortire, la gravidanza era a uno stadio molto avanzato. “Mi dissero che in nessun paese del mondo, nemmeno negli Stati Uniti d’America, avrei potuto farlo”, ha detto la donna.

Secondo il dipartimento britannico della Salute, nel 2013 quasi 3.700 donne della Repubblica d’Irlanda e circa 800 dell’Irlanda del Nord (territorio del Regno Unito dove comunque esistono leggi simili a quelle del paese nel sud dell’isola) si sono recate in Inghilterra per interrompere la gravidanza. Veri e propri viaggi della speranza, spesso effettuati nei fine settimana, con le cliniche britanniche che operano a ritmo ininterrotto. Lo scorso luglio persino il comitato per la difesa dei diritti umani delle Nazioni unite aveva criticato le leggi sull’aborto irlandesi, dicendo che le donne vengono considerate in quel Paese come dei “contenitori”. E lo scorso fine settimana il Consiglio delle donne irlandesi, una sorta di sindacato “di genere”, aveva definito l’ultimo caso salito agli onori delle cronache come “barbarico”.

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