Recentemente, è stata presentata la classifica delle 500 “migliori università” del mondo secondo un’elaborazione della Jiao Tong University di Shanghai (“Shanghai Ranking“). Questa graduatoria ha portato sicuramente fama ai compilatori, essendo una delle prime a essere pubblicata ed è purtroppo molto popolare nella stampa mondiale.
In Italia si è creato un piccolo “caso” a dimostrazione che generalmente chi scrive di queste classifiche gli attribuisce “poteri magici” non comprendendo quali sono le “basi” sulle quali sono costruite. Lo Shanghai Ranking è ordinata per punteggio solo nelle prime 100 posizioni. I blocchi prima da 50, dalla posizione 101 a 150, da 151 a 200, poi da 100, dalla posizione 201 a 300 e così via riportano semplicemente le università in ordine alfabetico, perché gli autori riconoscono che l’indeterminazione della misura non permette di ordinare in modo affidabile secondo i criteri da loro stessi stabiliti.
Sei università italiane (riportate in ordine alfabetico: Bologna, Milano, Padova, Pisa, Roma-Sapienza, Torino) si sono piazzate nel blocco 151-200. Che l’ordine fosse puramente alfabetico non è stato afferrato appieno da buona parte dei media italiani, che per lo più hanno titolato “Bologna migliore università italiana“, forse indotti in errore da un lancio impreciso dell’agenzia Ansa. Ci sono cascati : RaiNews, Repubblica, il Sole24Ore, anche ilfattoquotidiano.it che però ha correttamente rettificato la notizia. Tuttavia, lo scivolone più rumoroso è stato di Dario Braga, prorettore alla ricerca dell’università di Bologna che in un’intervista al Corriere ha posto l’accento sull’effimero primato italiano della sua istituzione.
Sul sito Roars qualcuno si è divertito a classificare anche le università dal 151esimo al 200esimo posto dal momento che i dati parziali erano disponibili e sorpresa! Roma Sapienza è al 152mo posto, mentre Bologna retrocede in coda al 200 posto. Al di là delle facili battute con analogie calcistiche che girano a Roma (tanto i colleghi bolognesi sono abituati alle retrocessioni…) nell’università della capitale si sono evitati facili trionfalismi. Ad esempio, Giancarlo Ruocco prorettore alla ricerca di Sapienza e con funzioni omologhe a Dario Braga, ha osservato quanto queste classifiche, e in particolare lo Shanghai Ranking, non solo siano inaffidabili a causa di numerose falle metodologiche, ma soprattutto siano pericolose. Una politica universitaria che puntasse semplicemente a scalare posizioni in classifica avrebbe conseguenze nefaste.
Ad esempio, il primo indicatore “alumni” vorrebbe misurare la “qualità dell’educazione”. Questo parametro è basato esclusivamente sul numero di premi Nobel e medaglie Fields ottenuti dagli ex-allievi, anche un secolo fa. Una potenziale matricola e la sua famiglia sarebbero di certo più interessati a una reale misura < della “qualità dell’educazione”, in altre parole all’importo delle tasse, alla qualità dell’insegnamento, alla possibilità di occupazione futura, parametri cruciali che sono assolutamente ignorati nella graduatoria, probabilmente a causa della loro problematica quantificazione.
In modo analogo, ci sono settori che non hanno una tradizione consolidata di valutazione bibliometrica o non pubblicano in inglese, come legge, lettere, scienze umane. Come aumentare in modo semplice il punteggio del proprio ateneo? Chiudendo le facoltà di Giurisprudenza e Lettere ad esempio.
Già nel 2009 dei ricercatori francesi hanno analizzato in modo sistematico le numerose falle metodologiche di questa graduatoria. Cinque indicatori su sei premiano la dimensione degli atenei, pertanto se ad esempio le tredici università di Parigi si unissero in modo selettivo per formare un mega ateneo, questa ipotetica istituzione supererebbe probabilmente nella graduatoria Harvard, ma non offrirebbe per nulla servizi migliori agli studenti. Anzi, diverrebbe un mostro burocratico, creando una serie di spese inutili. In modo analogo, con una “riforma” che unisse qualche università italiana non modificando nulla altro si potrebbe scalare facilmente la classifica. Quale sarebbe l’utilità di tutto questo, a parte scrivere l’anno prossimo un articolo dal titolo “Successo del ministro. Finalmente un’università italiana tra le prime 100 del mondo”.
In conclusione, inseguire le graduatorie di università genera per lo più effetti perversi, che non serve affatto a migliorare l’università. Le classifiche si avvicinano molto alla pseudoscienza, ove di fronte a problemi reali ma complessi (es. i tumori) sono proposte soluzioni semplicistiche che si rivelano inefficaci (il cosiddetto “Metodo di Bella” o la cura con il bicarbonato). L’informazione è in errore quando enfatizza il valore delle classifiche, che ad una attenta analisi non misurano nulla di davvero utile ai fini di una valutazione. Se questo è comprensibile (ma non giustificabile) da parte dei giornalisti è mai possibile che dei docenti universitari non si rendano conto della sostanziale inutilità e dannosità di questo strumento e invece si lancino in improbabili dichiarazioni sensazionalistiche “avallando” la pseudoscienza?