Sabato scorso ho avuto un incontro con Roberto Vecchioni sul palco de “Il Tenco ascolta” di Pescara, per un’intervista-concerto di circa un’ora e mezza. È una formula che avevo già sperimentato un anno prima, con Niccolò Fabi: una chiacchierata inframmezzata da esecuzioni di canzoni chitarra-e-voce.
Sia con Fabi sia l’altra sera con Vecchioni, la formula ha riscosso grandinate di consensi. E il motivo non risiede nelle doti di chi scrive, no davvero. Certo, l’intervistatore deve sapere quali corde toccare, come scoperchiare il vaso di Pandora con un invito, con uno stimolo. Non bisogna essere invadenti, ma curiosi. Bisogna soprattutto conoscere bene l’opera dell’artista e le potenzialità delle sue canzoni.
Verosimilmente però la maggior parte del merito va agli artisti coinvolti: sia Fabi che Vecchioni hanno la capacità di usare le parole in maniera essenziale e coinvolgente, sia dentro che fuori le canzoni.
Ma c’è di più: l’intervista-concerto è una delle formule migliori in assoluto per esaltare la canzone d’autore, cioè un certo tipo di canzone “in cui le parole contano e si stanno a sentire” (per dirla con Umberto Eco). Sembrerà blasfemo ai puristi della musica, a chi pensa che l’espressione musicale prescinda da traduzioni descrittive a parole e si componga di sola performance, ma per la canzone d’autore un’introduzione, una spiegazione preliminare, l’esaltazione prima dell’esecuzione di certi aspetti del brano risultano profondamente preziosi per una fruizione ottimale.
Sia Fabi che Vecchioni sanno come sottolineare l’anima di brani di cui hanno scritto personalmente parole e musica; durante la canzone capiscono perfettamente quando e come il pubblico si emozionerà, sotto quali versi penderà dalle loro labbra: nel picco, nel momento apicale, nel verso che tradurrà in espressione artistica l’introduzione descrittiva e renderà quel momento come idealmente perfetto, un tutto al proprio posto, anche se solo per un attimo, per una canzone o per quel verso in particolare.
E in un’intervista-concerto capisci anche chi è bravo davvero, chi ha una necessità autentica dietro la scrittura e chi no. Una canzone fatta male si sbriciola sia sotto le parole di presentazione prima dell’esecuzione, sia nel canto a esse collegato.
Durante una chiacchierata sul palco, parlando di una canzone scevra del tutto di una necessità espressiva, arriverebbe immancabile il momento in cui la platea pensi: “Tutto qua?”. Lì la credibilità dell’artista crolla, la tensione si spezza, l’intervista è finita, il concerto pure.
E poi c’è il modo col quale le canzoni dovrebbero essere eseguite in un’intervista-concerto: nude, come nudo e intimo è il
rapporto tra spiegazione ed esecuzione. Parlare sul palco con chi ha creato un’armonia, una melodia e delle parole che si tengono insieme da sole presuppone una performance “d’autore”, che restituisca il più possibile il momento ispirativo.
L’intervista-concerto, insomma, è una formula che spero possa prendere sempre più piede in Italia, anche per esaltare chi davvero sa scrivere brani che stanno in piedi. Oggi tutti scrivono canzoni e questo credo sia un bene. Ma l’inflazione produttiva non deve far passare il messaggio che la canzone sia un’arte semplice da realizzare e per questo minore.
Nell’intervista-concerto capisci che la semplicità delle canzoni è una semplicità preziosa a cui si arriva dopo un percorso complicatissimo, per sottrazioni continue, in cui attraversi un mare infestato dalle sirene della facilità della comunicazione orizzontale e della complicazione lessicale intellettualoide e aulicamente forzata. In pochi arrivano sulla terraferma con le parole giuste che colpiscono al cuore. Pochissimi.