Il 3 settembre scorso si sono svolti i test di ammissione ai corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie, ai quali hanno partecipato complessivamente circa 85.000 candidati. Poiché i posti erano soltanto 25.000, gli esclusi saranno molto più numerosi dei vincitori e sono prevedibili le consuete valanghe di ricorsi. Il numero è forza, anche politica, ed il ministro Giannini continua a reiterare la sua fantasiosa proposta di abolizione del test di ingresso a Medicina, da sostituirsi con uno sbarramento “alla francese” alla fine del primo anno di corso: demagogia pura, perché a fronte dell’enorme maggior impegno e costo a carico delle università, la selezione ed i ricorsi ci sarebbero lo stesso.
I termini normativi e logici del problema sono essenzialmente tre: il diritto allo studio, il fabbisogno di laureati nelle professioni in questione, e la capienza delle strutture formative, e sono stati oggetto di una sentenza della Corte dei Diritti Umani della Comunità Europea, cui erano ricorsi alcuni italiani che non avevano superato le selezioni. Per ciò che attiene al diritto allo studio, occorre dire che dal punto di vista normativo è un falso problema: la nostra Costituzione è chiarissima nello spiegare che questo diritto è inteso come protezione degli studenti “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” (artt. 3 e 34). Poiché il test di ammissione dovrebbe, almeno in teoria, individuare i “capaci e meritevoli”, chi è escluso dal test non ha motivo di appellarsi. Si può naturalmente sostenere che il test è cattivo, e non individua i “capaci e meritevoli” ma i secchioni o i fortunati; anche io ho spesso criticato le domande, così stravaganti che su oltre 70.000 candidati iscritti ogni anno nessuno mai raggiunge il massimo del punteggio; ma questo sarebbe un diverso ricorso, nel merito dei test, inadatto a far ammettere qualche escluso. Nessun ricorrente basa effettivamente il suo ricorso sul dettato costituzionale, perché questo gli richiederebbe di dimostrare di essere “capace e meritevole”, a fronte del fatto di aver fallito il test: i ricorsi si fanno su presunte o reali irregolarità amministrative, nella speranza di far annullare il concorso e far quindi ammettere tutti, capaci e incapaci.
Il fabbisogno di laureati del paese e la capienza delle strutture sono invece gli argomenti sui quali la Corte Europea ha bocciato i ricorrenti, ed ha riconosciuto legittimo il numero chiuso “according to the needs and resources of the community”. In effetti in una forma o in un’altra, il numero chiuso è adottato da tutti i paesi d’Europa perché produrre più laureati di quelli che servono ed hanno possibilità di impiego comporta costi gravosi per la società, sia per la formazione di professionisti che non troveranno impiego adeguato, sia per la disoccupazione e sottoccupazione di personale ad alta specializzazione.
Valutare il costo di uno studente universitario non è facile; secondo il rapporto Ocse Education at a Glance 2011 uno studente italiano costa mediamente l’equivalente di circa 9.000 dollari all’anno, dei quali non meno dell’80% è a carico dello stato. L’eliminazione del numero chiuso in corsi di Laurea costosi come quelli di Medicina o delle Professioni Sanitarie moltiplicherebbe i costi rispettivamente per sette e per tre; e non si può pensare di “riorganizzare” la spesa per risparmiare perché il costo medio dello studente universitario in Italia è già “riorganizzato” ed è di un terzo inferiore alla media Ocse (14.000 dollari/anno per studente).
In realtà il problema italiano è l’opposto: le strutture sono obsolete e sottodimensionate anche per i numeri chiusi attuali e sarebbe necessario investire di più per gli studenti che ci sono prima di pensare di aumentarne il numero. In prospettiva, l’Italia ha pochi laureati ed una sana politica in favore della formazione terziaria sarà indispensabile: ma sempre rispettando i fabbisogni nelle varie professioni.