Cara stolida, impotente, divisa Europa, inutile fingere di non capire, di credere nelle tregue sollecitate dai cannoni invasori, di immaginare che creando un “cordone” Nato di sicurezza con cinque (piccole) basi a Est si possa indurre a più miti consigli il Cremlino. E’ solo fumo negli occhi, illusioni politiche, parole che pesano nemmeno il tempo d’essere pronunciate. Sul fronte occidentale, infatti, nulla di nuovo. Tra poco ricomincia il freddo, le case dei tedeschi, degli italiani, di gran parte degli europei dovranno essere riscaldate in buona percentuale con il gas erogato da Gazprom, mica c’è Washington a rifornirci di prezioso combustibile e per di più ai prezzi concorrenziali dei russi, tantomeno con il chimerico gas di scisto…quindi, finiamola di fare la voce grossa, di esercitarci nel teatrino dei muscoli e degli schieramenti contrapposti, così tanto strombazzati dai mass media che alzano toni e ingrossano titoli, nessuno vuole rischiare la catastrofe per l’Ucraina e questo, prima di tutti, lo sa benissimo il cinico ed abile Vladimir Vladimirovic Putin. I suoi “cessate-il-fuoco” sono prese in giro, documentate regolarmente dai satelliti spia Usa. Le sue pretese, al contrario, sono chiare e ben definite, e questo fin dall’inizio degli scontri in Crimea e poi nella regione di Donetsk.
L’equazione è semplice: non solo la Russia minaccia la pace nel Vecchio Continente, ma è Putin a dettare le regole del Grande Gioco, e non vi è Obama che possa alzare la voce con annunci bellicosi di riarmo alle frontiere orientali della Nato per impedirglielo. I fatti sono piuttosto semplici, conseguenti all’atteggiamento putiniano: un giorno il capo del Cremlino assume la parte di colui che auspica la pace e propone la tregua, il giorno dopo indossa i panni del Conquistatore, di colui cioè che ridarà alla Russia il suo impero perduto a causa del Grande Errore – ossia la inopinata dissoluzione dell’Unione Sovietica. La doppiezza di Putin è l’essenza del suo profilo diciamo così “professionale”, di spia allevata dal Kgb (“lo si resta per sempre”, ha lui stesso detto più volte nei raduni coi vecchi ex compagni dei servizi segreti sovietici); del dominus di un regime che si puntella sul concetto di “democratura” (sorta di dittatura pseudodemocratica) e sulla dottrina militare che considera “minacce supplementari” e intollerabili la progressione continua della Nato verso le sue frontiere, il dispiegamento di nuovi armamenti occidentali nei Paesi baltici, soprattutto la situazione in Ucraina: considerazioni, queste, espresse sulla Rossiskaja Gazeta di qualche giorno fa (più esattamente, il 4 settembre).
Anzi, cara Europa bruxelliana e renziana, Putin si può permettere di giocare la sua Telesina a carte scoperte. Nella sua recentissima visita in Mongolia, quando ha presentato il suo piano di pace immediatamente seguite dalle dichiarazioni dei rappresentanti delle repubbliche autoproclamate confermano che la Russia si orienta verso la stabilizzazione di uno Stato non riconosciuto che si chiama “Nuova Russia“, sul territorio dell’Ucraina. Cito l’editoriale di Gazeta.ru del 6 settembre: “Le frontiere georgrafiche di questo territorio qualificato zona di sicurezza nel piano di Putin sono ancora fluide, ma il loro significato geopolitico è evidente sia per la Russia che per l’Ucraina”. Tant’è che la dirigenza della Repubblica popolare del Donetsk (l’autoproclamata RPD) sta per avviare a Mosca dei colloqui per gestire l’erogazione di gas russo nel Donbass, secondo quanto ha dichiarato il ministro della Sicurezza della RPD, tale Leonid Baranov. Il gasdotto in questione passa nella regione di Lugansk per confluire in quella del Donetsk, e pure questo è un segnale ben preciso, e propagandistico: l’indipendenza energetica da Kiev. Come la volontà di entrare nell’area monetaria di Mosca, adottando il rublo.
E’ una partita che Putin non si può permettere di perdere: difendendo “i diritti delle popolazioni russofone” (concetto basilare ufficiale russo amplificato dai media asserviti al regime, ossia quasi tutti), vuole mettere in discussione la governabilità dell’Ucraina, vuole cioè un cambiamento di potere a Kiev, un ritorno cioè all’ovile. La guerra in Ucraina, dunque, è diventata una questione “esistenziale” per il regime russo, una battaglia in cui Putin mette in gioco tutta la sua credibilità. Forte di un consenso schiacciante, sinora, quasi del 90 per cento. Ma è un consenso solido in apparenza: tutto dipende dal successo finale. Per questo sono stati mobilitati i migliori e più efficienti reparti dell’esercito, dell’aviazione della marina. I costi della mobilitazione sono ingenti, si accumulano ai danni economici provocati dalle sanzioni, alla svalutazione del rublo, alla negatività della Borsa di Mosca, alle perplessità degli oligarchi amici del Cremlino. Per questo, nell’ottica putiniana, è necessario il ritorno della riottosa e ribelle Kiev nell’ovile russo. Rea, l’Ucraina, di avere scelto un modello di sviluppo “occidentale” (ed estraneo a quello proposto da Mosca); di avere chiesto l’aiuto della Nato e di volere entrare nell’alveo dell’Unione Europea. Il vero disegno di Putin è rendere ingovernabile l’Ucraina, alimentando il caos e sollecitando la frantumazione territoriale ad Est. Nell’impegnativo e sfacciato sostegno ai ribelli c’è sia la vendetta del Cremlino, sia l’esigenza di dimostrare – più all’interno della Russia che all’esterno – che la sovranità russa è quella imperiale e non quella mutilata dal crollo dell’Urss. Del resto, lo stesso Mikhail Gorbachev, l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, ha ricordato anche sulle pagine del Fatto quotidiano di sabato che aveva proposto a suo tempo le trattative su “unione economica, unica difesa e unica politica estera”, nonché la delicata questione relativa allo status di Sebastopoli – storica base navale della Flotta Russa Meridionale del Mar Nero. Questione risolta brutalmente con le armi da Putin.
Il quale non intende cedere di un millimetro. Ogni passo indietro, per lui, sarebbe ammissione di debolezza. La sua Unione Euroasiatica – velleitaria replica alla Ue – mostra già qualche crepa e parecchie riluttanze (segnatamente da parte del Kazakhistan e persino della Bielorussia). Quanto ai separatisti ucraini, costoro non hanno la benché minima intenzione di organizzare elezioni legislative per entrare alla Rada, il parlamento ucraino. I bombardamenti su Mariupol, che stanno incrinando questa precarissima tregua, hanno chiaramente lo scopo di conquistare uno sbocco sul mare per le regioni del Donetsk e del Lugansk. Per quel che se ne sa, o per quello che lasciano trapelare i media russi, il piano di pace perorato da Putin prevede il ritiro delle truppe di Kiev dai due territori e la soppressione di ogni posto di controllo su quel pezzo di frontiera che unisce le due regioni alla Russia. E questo riporta in primo piano la questione dello status dei territori separatisti. La mossa è astuta: Mosca non intende annetterli come ha fatto con la Crimea, perché questo alimenterebbe l’inevitabile guerra civile (ci sono stati già 2600 morti). Unica concessione eventuale, il riconoscimento formale da parte della Russia nel caso in cui l’Ucraina, spalleggiata dall’Occidente, tentasse la riconquista.
In ogni modo, il rischio è che le due autoproclamatisi repubbliche popolari (RPD e RPL, Repubblica Popolare di Lugansk) diventino delle cosiddette “bombe territoriali”, come è successo nel caso della Transnistria in Moldavia, dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia in Georgia. Zone d’influenza russa, cuscinetti contro la Nato. Riposizionamento di missili, revisioni delle strategie militari, ma quel che conta di più, l’apertura di un ciclo di negoziati con Kiev sotto l’egida di Mosca. E qui, di nuovo, siamo al gioco delle parti. Putin come l’uomo che vuole la pace, ma anche come quello che può scatenare l’inferno. Bisogna dargli atto che, appena il “concerto delle nazioni” occidentali strepita e grida “al lupo, al lupo!”, egli si mostra disponibile al colloquio, per sabotarli appena le cose non vanno come Mosca desidera. Negli ultimi sei mesi, è successo già tre volte. L’obiettivo di Putin è smorzare le rappresaglie. E’, soprattutto, seminare zizzania all’interno del fronte europeo. Ciò gli riesce benissimo. Perché il primo vero punto debole è l’intrinseca debolezza politica e militare dell’Ucraina. Che vanta un esercito di 800 mila uomini. Peccato che solo il dieci per cento di queste forze fossero in grado di battersi al momento dell’inizio delle ostilità, in un territorio vasto tre volte l’Italia e che solo un migliaio di essi fossero stati utilizzati “immediatamente”. Cosa che i servizi d’intelligence russa conoscevano perfettamente.
E’, in fondo, questo lo stesso scenario vigliacco che si sviluppò durante la crisi moldava e poi, sei anni fa, in Georgia. Qualcuno dice che Putin si comporta come un bullo in una scuola per bene. Senza dimenticare che una certa Europa è stata già conquistata – anzi, sarebbe meglio dire: acquistata – dalla Russia: l’Europa degli affari, delle mazzette legate al business dell’energia e delle materie prime, dei politici prezzolati dal Cremlino, e questa è una guerra assai più insidiosa da debellare.
Mondo
Ucraina, Europa ko. Ha vinto Putin: si è preso il Donbass. E Obama non può nulla
A poco servono le 5 piccole basi che la Nato installerà sui confini. Con l'inverno le case degli europei dovranno essere riscaldate in buona percentuale con il gas erogato da Gazprom e nessuno, a di qua dell'ex cortina di ferro, vuole rischiare la catastrofe per l’Ucraina: lo "zar" lo sa ed è lui a dettare le regole del gioco. Per lui, alle prese con i danni economici provocati dalle sanzioni, dalla svalutazione del rublo, dalla negatività della Borsa di Mosca, la questione è vitale: non può permettersi di uscire sconfitto
Cara stolida, impotente, divisa Europa, inutile fingere di non capire, di credere nelle tregue sollecitate dai cannoni invasori, di immaginare che creando un “cordone” Nato di sicurezza con cinque (piccole) basi a Est si possa indurre a più miti consigli il Cremlino. E’ solo fumo negli occhi, illusioni politiche, parole che pesano nemmeno il tempo d’essere pronunciate. Sul fronte occidentale, infatti, nulla di nuovo. Tra poco ricomincia il freddo, le case dei tedeschi, degli italiani, di gran parte degli europei dovranno essere riscaldate in buona percentuale con il gas erogato da Gazprom, mica c’è Washington a rifornirci di prezioso combustibile e per di più ai prezzi concorrenziali dei russi, tantomeno con il chimerico gas di scisto…quindi, finiamola di fare la voce grossa, di esercitarci nel teatrino dei muscoli e degli schieramenti contrapposti, così tanto strombazzati dai mass media che alzano toni e ingrossano titoli, nessuno vuole rischiare la catastrofe per l’Ucraina e questo, prima di tutti, lo sa benissimo il cinico ed abile Vladimir Vladimirovic Putin. I suoi “cessate-il-fuoco” sono prese in giro, documentate regolarmente dai satelliti spia Usa. Le sue pretese, al contrario, sono chiare e ben definite, e questo fin dall’inizio degli scontri in Crimea e poi nella regione di Donetsk.
L’equazione è semplice: non solo la Russia minaccia la pace nel Vecchio Continente, ma è Putin a dettare le regole del Grande Gioco, e non vi è Obama che possa alzare la voce con annunci bellicosi di riarmo alle frontiere orientali della Nato per impedirglielo. I fatti sono piuttosto semplici, conseguenti all’atteggiamento putiniano: un giorno il capo del Cremlino assume la parte di colui che auspica la pace e propone la tregua, il giorno dopo indossa i panni del Conquistatore, di colui cioè che ridarà alla Russia il suo impero perduto a causa del Grande Errore – ossia la inopinata dissoluzione dell’Unione Sovietica. La doppiezza di Putin è l’essenza del suo profilo diciamo così “professionale”, di spia allevata dal Kgb (“lo si resta per sempre”, ha lui stesso detto più volte nei raduni coi vecchi ex compagni dei servizi segreti sovietici); del dominus di un regime che si puntella sul concetto di “democratura” (sorta di dittatura pseudodemocratica) e sulla dottrina militare che considera “minacce supplementari” e intollerabili la progressione continua della Nato verso le sue frontiere, il dispiegamento di nuovi armamenti occidentali nei Paesi baltici, soprattutto la situazione in Ucraina: considerazioni, queste, espresse sulla Rossiskaja Gazeta di qualche giorno fa (più esattamente, il 4 settembre).
Anzi, cara Europa bruxelliana e renziana, Putin si può permettere di giocare la sua Telesina a carte scoperte. Nella sua recentissima visita in Mongolia, quando ha presentato il suo piano di pace immediatamente seguite dalle dichiarazioni dei rappresentanti delle repubbliche autoproclamate confermano che la Russia si orienta verso la stabilizzazione di uno Stato non riconosciuto che si chiama “Nuova Russia“, sul territorio dell’Ucraina. Cito l’editoriale di Gazeta.ru del 6 settembre: “Le frontiere georgrafiche di questo territorio qualificato zona di sicurezza nel piano di Putin sono ancora fluide, ma il loro significato geopolitico è evidente sia per la Russia che per l’Ucraina”. Tant’è che la dirigenza della Repubblica popolare del Donetsk (l’autoproclamata RPD) sta per avviare a Mosca dei colloqui per gestire l’erogazione di gas russo nel Donbass, secondo quanto ha dichiarato il ministro della Sicurezza della RPD, tale Leonid Baranov. Il gasdotto in questione passa nella regione di Lugansk per confluire in quella del Donetsk, e pure questo è un segnale ben preciso, e propagandistico: l’indipendenza energetica da Kiev. Come la volontà di entrare nell’area monetaria di Mosca, adottando il rublo.
E’ una partita che Putin non si può permettere di perdere: difendendo “i diritti delle popolazioni russofone” (concetto basilare ufficiale russo amplificato dai media asserviti al regime, ossia quasi tutti), vuole mettere in discussione la governabilità dell’Ucraina, vuole cioè un cambiamento di potere a Kiev, un ritorno cioè all’ovile. La guerra in Ucraina, dunque, è diventata una questione “esistenziale” per il regime russo, una battaglia in cui Putin mette in gioco tutta la sua credibilità. Forte di un consenso schiacciante, sinora, quasi del 90 per cento. Ma è un consenso solido in apparenza: tutto dipende dal successo finale. Per questo sono stati mobilitati i migliori e più efficienti reparti dell’esercito, dell’aviazione della marina. I costi della mobilitazione sono ingenti, si accumulano ai danni economici provocati dalle sanzioni, alla svalutazione del rublo, alla negatività della Borsa di Mosca, alle perplessità degli oligarchi amici del Cremlino. Per questo, nell’ottica putiniana, è necessario il ritorno della riottosa e ribelle Kiev nell’ovile russo. Rea, l’Ucraina, di avere scelto un modello di sviluppo “occidentale” (ed estraneo a quello proposto da Mosca); di avere chiesto l’aiuto della Nato e di volere entrare nell’alveo dell’Unione Europea. Il vero disegno di Putin è rendere ingovernabile l’Ucraina, alimentando il caos e sollecitando la frantumazione territoriale ad Est. Nell’impegnativo e sfacciato sostegno ai ribelli c’è sia la vendetta del Cremlino, sia l’esigenza di dimostrare – più all’interno della Russia che all’esterno – che la sovranità russa è quella imperiale e non quella mutilata dal crollo dell’Urss. Del resto, lo stesso Mikhail Gorbachev, l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, ha ricordato anche sulle pagine del Fatto quotidiano di sabato che aveva proposto a suo tempo le trattative su “unione economica, unica difesa e unica politica estera”, nonché la delicata questione relativa allo status di Sebastopoli – storica base navale della Flotta Russa Meridionale del Mar Nero. Questione risolta brutalmente con le armi da Putin.
Il quale non intende cedere di un millimetro. Ogni passo indietro, per lui, sarebbe ammissione di debolezza. La sua Unione Euroasiatica – velleitaria replica alla Ue – mostra già qualche crepa e parecchie riluttanze (segnatamente da parte del Kazakhistan e persino della Bielorussia). Quanto ai separatisti ucraini, costoro non hanno la benché minima intenzione di organizzare elezioni legislative per entrare alla Rada, il parlamento ucraino. I bombardamenti su Mariupol, che stanno incrinando questa precarissima tregua, hanno chiaramente lo scopo di conquistare uno sbocco sul mare per le regioni del Donetsk e del Lugansk. Per quel che se ne sa, o per quello che lasciano trapelare i media russi, il piano di pace perorato da Putin prevede il ritiro delle truppe di Kiev dai due territori e la soppressione di ogni posto di controllo su quel pezzo di frontiera che unisce le due regioni alla Russia. E questo riporta in primo piano la questione dello status dei territori separatisti. La mossa è astuta: Mosca non intende annetterli come ha fatto con la Crimea, perché questo alimenterebbe l’inevitabile guerra civile (ci sono stati già 2600 morti). Unica concessione eventuale, il riconoscimento formale da parte della Russia nel caso in cui l’Ucraina, spalleggiata dall’Occidente, tentasse la riconquista.
In ogni modo, il rischio è che le due autoproclamatisi repubbliche popolari (RPD e RPL, Repubblica Popolare di Lugansk) diventino delle cosiddette “bombe territoriali”, come è successo nel caso della Transnistria in Moldavia, dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia in Georgia. Zone d’influenza russa, cuscinetti contro la Nato. Riposizionamento di missili, revisioni delle strategie militari, ma quel che conta di più, l’apertura di un ciclo di negoziati con Kiev sotto l’egida di Mosca. E qui, di nuovo, siamo al gioco delle parti. Putin come l’uomo che vuole la pace, ma anche come quello che può scatenare l’inferno. Bisogna dargli atto che, appena il “concerto delle nazioni” occidentali strepita e grida “al lupo, al lupo!”, egli si mostra disponibile al colloquio, per sabotarli appena le cose non vanno come Mosca desidera. Negli ultimi sei mesi, è successo già tre volte. L’obiettivo di Putin è smorzare le rappresaglie. E’, soprattutto, seminare zizzania all’interno del fronte europeo. Ciò gli riesce benissimo. Perché il primo vero punto debole è l’intrinseca debolezza politica e militare dell’Ucraina. Che vanta un esercito di 800 mila uomini. Peccato che solo il dieci per cento di queste forze fossero in grado di battersi al momento dell’inizio delle ostilità, in un territorio vasto tre volte l’Italia e che solo un migliaio di essi fossero stati utilizzati “immediatamente”. Cosa che i servizi d’intelligence russa conoscevano perfettamente.
E’, in fondo, questo lo stesso scenario vigliacco che si sviluppò durante la crisi moldava e poi, sei anni fa, in Georgia. Qualcuno dice che Putin si comporta come un bullo in una scuola per bene. Senza dimenticare che una certa Europa è stata già conquistata – anzi, sarebbe meglio dire: acquistata – dalla Russia: l’Europa degli affari, delle mazzette legate al business dell’energia e delle materie prime, dei politici prezzolati dal Cremlino, e questa è una guerra assai più insidiosa da debellare.
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Beirut, 16 mar. (Adnkronos) - Hezbollah ha condannato in una dichiarazione gli attacchi americani contro obiettivi Houthi nello Yemen. "Affermiamo la nostra piena solidarietà nei confronti del coraggioso Yemen e chiediamo a tutti i popoli liberi del mondo e a tutte le forze di resistenza nella nostra regione e nel mondo di unirsi per contrastare il progetto sionista americano contro i popoli della nostra nazione", ha scritto in una nota il Partito di Dio.
Washington, 16 mar. (Adnkronos) - Gli attacchi americani in Yemen sono "un avvertimento per gli Houthi e per tutti i terroristi". Lo ha detto a Fox News il vice inviato degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Morgan Ortagus, sottolineando che "questa non è l'amministrazione Biden. Se colpisci gli Stati Uniti, il presidente Trump risponderà. Il presidente Trump sta ripristinando la leadership e la deterrenza americana in Medio Oriente".
Washington, 16 mar. (Adnkronos) - Steve Witkoff, ha definito "inaccettabili" le ultime richieste di Hamas in merito al cessate il fuoco a Gaza. Riferendosi alla conferenza del Cairo di inizio mese, l'inviato statunitense per il Medio Oriente ha detto alla Cnn di aver "trascorso quasi sette ore e mezza al summit arabo, dove abbiamo avuto conversazioni davvero positive, che descriverei come un punto di svolta, se non fosse stato per la risposta di Hamas".
Hamas avrebbe insistito affinché i negoziati per un cessate il fuoco permanente iniziassero lo stesso giorno del prossimo rilascio di ostaggi e prigionieri palestinesi. Secondo Al Jazeera, Hamas ha anche chiesto che, una volta approvato l'accordo, i valichi di frontiera verso Gaza venissero aperti, consentendo l'ingresso degli aiuti umanitari prima del rilascio di Edan Alexander e dei corpi di quattro ostaggi. Inoltre, il gruppo ha chiesto la rimozione dei posti di blocco lungo il corridoio di Netzarim e l'ingresso senza restrizioni per i residenti di Gaza che tornano dall'estero attraverso il valico di Rafah.
"Abbiamo trascorso parecchio tempo a parlare di una proposta di ponte che avrebbe visto il rilascio di cinque ostaggi vivi, tra cui Edan Alexander, e anche, tra l'altro, il rilascio di un numero considerevole di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane", ha detto Witkoff. "Pensavo che la proposta fosse convincente: gli israeliani ne erano stati informati e avvisati in anticipo". "C'è un'opportunità per Hamas, ma si sta esaurendo rapidamente", ha continuato Witkoff. " Con quello che è successo ieri con gli Houthi, ciò che è successo con il nostro ordine di attacco, incoraggerei Hamas a diventare molto più ragionevole di quanto non sia stato finora".
Tel Aviv, 16 mar. (Adnkronos) - L'esercito israeliano ha scoperto un nascondiglio di armi nel campo profughi di Nur Shams, fuori Tulkarem, nella Cisgiordania settentrionale. Lo ha reso noto l'Idf, precisando che sono state rinvenute diverse borse contenenti armi, una delle quali conteneva anche un giubbotto con la scritta 'Unrwa'. Le armi confiscate sono state consegnate alle forze di sicurezza per ulteriori indagini.
Tel Aviv, 16 mar. (Adnkronos) - Un missile lanciato dagli Houthi è caduto a Sharm el-Sheikh, nella penisola egiziana del Sinai. Lo ha riferito la radio dell'esercito israeliano, aggiungendo che l'Idf sta indagando per stabilire se il missile fosse diretto contro Israele.
Passo del Tonale, 15 mar.(Adnkronos) - Che l’aspetto competitivo fosse tornato ad essere il cuore pulsante di questa quinta edizione della Coppa delle Alpi era cosa già nota. Ai piloti il merito di aver offerto una gara esaltante, che nella tappa di oggi ha visto Alberto Aliverti e Francesco Polini, sulla loro 508 C del 1937, prendersi il primo posto in classifica scalzando i rivali Matteo Belotti e Ingrid Plebani, secondi al traguardo sulla Bugatti T 37 A del 1927. Terzi classificati Francesco e Giuseppe Di Pietra, sempre su Fiat 508 C, ma del 1938. La neve, del resto, è stata una compagna apprezzatissima di questa edizione della Coppa delle Alpi, contribuendo forse a rendere ancor più sfidante e autentica la rievocazione della gara di velocità che nel 1921 vide un gruppo di audaci piloti percorrere 2300 chilometri fra le insidie del territorio alpino, spingendo i piloti a sfoderare lo spirito audace che rappresenta la vera essenza della Freccia Rossa.
Nel pomeriggio di oggi, dalla ripartenza dopo la sosta per il pranzo a Baselga di Piné, una pioggia battente ha continuato a scendere fino all’arrivo sul Passo del Tonale, dove si è trasformata in neve. Neve che è scesa copiosa anche in occasione del primo arrivo di tappa a St. Moritz e ieri mattina, sul Passo del Fuorn. Al termine di circa 880 chilometri attraverso i confini di Italia, Svizzera e Austria, i 40 equipaggi in gara hanno finalmente tagliato il traguardo alle 17:30 di oggi pomeriggio all’ingresso della Pista Ghiaccio Val di Sole, dove hanno effettuato il tredicesimo ed ultimo Controllo Orario della manifestazione.
L’ultimo atto sportivo dell’evento è stato il giro nel circuito, all’interno del quale le vetture si sono misurate in una serie di tre Prove Cronometrate sulla neve fresca valide per il Trofeo Ponte di Legno, vinto da Francesco e Giuseppe Di Pietra. L’altro trofeo speciale, il Trofeo Città di Brescia, ovvero la sfida 1 vs 1 ad eliminazione diretta di mercoledì sera in Piazza Vittoria, era stato anch’esso vinto da Aliverti-Polini.
Sana'a, 15 mar. (Adnkronos) - Gli attacchi aerei non scoraggeranno i ribelli yemeniti, i quali risponderanno agli Stati Uniti. Lo ha scritto sui social Nasruddin Amer, vice capo dell'ufficio stampa degli Houthi, aggiungendo che "Sana'a rimarrà lo scudo e il sostegno di Gaza e non la abbandonerà, indipendentemente dalle sfide".
"Questa aggressione non passerà senza una risposta e le nostre forze armate yemenite sono pienamente pronte ad affrontare l'escalation con l'escalation", ha affermato l'ufficio politico dei ribelli in una dichiarazione alla televisione Al-Masirah.
In un'altra dichiarazione citata da Ynet, un funzionario Houthi si è rivolto direttamente a Trump e a Netanyahu, che "stanno scavando tombe per i sionisti. Iniziate a preoccuparvi per le vostre teste".