Che il cambiamento climatico sia un problema serio motivato dalla diffusione dei gas ad effetto serra nell’atmosfera, sono rimasti oramai in pochi a contestarlo. Oltre alle lobby sconsideratamente interessate solo ai loro profitti a scapito dell’ambiente planetario e delle future generazioni, qualche politico irresponsabile, in genere ultraliberista e di estrema destra (fra gli altri quel Nigel Farage inopinatamente prescelto da Grillo e Casaleggio come proprio partner europeo: sarebbe interessante che ci fosse al riguardo un minimo di discussione nel Movimento Cinque Stelle, se si vuole davvero che tale Movimento divenga, come ho sempre auspicato, motore di un’alternativa che deve avere proprio sulle questioni ambientali posizioni precise e non subalterne a gruppi d’interesse).
Anche se sono rimasti in pochi a contestarlo, altrettanto pochi sono coloro che fanno qualcosa di concreto e serio per contrastare il cambiamento climatico. Posizioni serie e concrete sono ad esempio quelle assunte dalla Bolivia, che vengono illustrate dal suo delegato alle Nazioni Unite sui problemi ambientali René Orellana nel suo contributo al nostro (oltre che mio di Irene Romualdi e Marianna Stori) recente libro Boliva: nuove frontiere del diritto e della politica. Scrive Orellana, fra le altre cose, quanto segue: “Al fine di costruire una nuova visione dello sviluppo, come mezzo e non come fine, dobbiamo lavorare su una comprensione diversa della relazione tra l’essere umano e la natura, assumendo che entrambi, insieme, devono essere concepiti come il centro dell’implementazione di misure di sviluppo, prendendo coscienza del fatto che lo sviluppo non è un fine ma è appunto uno strumento. Lo sviluppo deve essere integrale ed olistico, deve cercare l’armonia tra gli esseri umani e la natura, promuovendo al contempo il soddisfacimento delle condizioni materiali e spirituali della popolazione. Lo sviluppo è un mezzo, non un fine, il fine è il vivir bien per godere appieno della felicità“.
Alla questione del cambiamento climatico è anche dedicato un recente appello promosso da ventuno organizzazioni presenti in vari Paesi, che rappresentano cento milioni di persone, appello ripreso da Guido Viale sul manifesto di qualche giorno fa (dal cui articolo desumo il testo), le quali chiedono che ci si impegni “1) a contenere le emissioni annue climalteranti a 38 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 entro il 2020, per impedire che la temperatura del pianeta aumenti di più di 1,5 gradi; 2) a lasciare sotto terra o sotto il fondo dei mari almeno l’80% delle riserve fossili conosciute; 3) a mettere al bando tutte le nuove esplorazioni ed estrazioni di combustibili fossili (e di uranio), comprese, a maggior ragione, quelle effettuate con il fracking e il trattamento delle sabbie bituminose; a soprassedere alla costruzione di nuovi impianti di trattamento e trasporto dei fossili, compresi i gasdotti…Il quarto punto 4) riguarda la promozione delle fonti energetiche rinnovabili (Fer) in forme sottoposte a un controllo pubblico o comunitario (cioè «partecipato»)….l quinto il sesto punto impegnano: 5) a promuovere la produzione e il consumo locali di beni durevoli, evitando di trasportare da un capo all’altro del mondo quello che può essere fabbricato in loco; 6) a incentivare la transizione a una produzione agroalimentare di prossimità. Il settimo e l’ottavo punto riguardano 7) l’obiettivo “rifiuti zero” (centrale nei territori massacrati da criminalità ambientale e malgoverno), un’edilizia a basso consumo energetico e 8) un trasporto di persone e merci con sistemi di mobilità pubblici e condivisa. Il punto 9) raccomanda la creazione di nuova occupazione finalizzata alla ricostituzione degli equilibri ambientali, sia nel campo delle emissioni climalteranti che in quello dell’assetto dei territori.
Sono le “mille piccole opere” in campo energetico, nella manutenzione dei suoli, nei trasporti, nell’edilizia e in agricoltura in cui dovrebbe articolarsi un piano di lavori pubblici per creare subito un milione di posti di lavoro in Italia e 6 milioni in Europa….Il decimo punto 10) impegna a smantellare industria e infrastrutture militari per ridurre le emissioni prodotte dalle guerre e destinare a opere di pace le risorse risparmiate. Non ci sono solo gli F35 da bloccare (cosa sacrosanta); c’è tutta l’industria e l’occupazione belliche da riconvertire: le opportunità di impieghi alternativi non mancherebbero”.
L’appello continua indicando le false soluzioni e le cose da evitare ad ogni costo, che sono ovviamente quelle sulle quali invece puntano governi e potere economico, come dimostrano da ultimo le vicende del Tap. Faremo in tempo a fermarli?