“Circa il sessanta per cento del valore della Borsa di Hong Kong dipende da imprese cinesi. Il capitale cinese, quindi, ha un ruolo dominante nel nostro mercato finanziario. Il che significa che la borghesia della Cina continentale e gli interessi dei tycoon di Hong Kong coincidono. E quindi la gente sa benissimo che il nostro governo è colluso con il Partito comunista cinese e che l’attacco alle libertà di Hong Kong arriva da un’alleanza tra il governo autocratico cinese e il grande business locale”. Più semplice di così si muore. A spiegare questa liaison dangereuse tra un Partito che si dice comunista e il capitalismo deregolato del maggiore hub finanziario d’Oriente è Au Loong- Yu, hongkonghino al cento per cento, direttore di China Labour Net e da decenni attivista del movimento operaio locale; uno che ogni tanto prende l’aereo e va a qualche summit altermondista in giro per il mondo, scrive libri, saggi.

Nel variegato movimento Occupy, dove la leadership originaria è già stata scavalcata dall’attivismo degli studenti, non c’è solo la richiesta di una liberaldemocrazia compiuta. Quella è la base comune, il punto di partenza. Più nel profondo, c’è la paura che un legame sempre più stretto con la Cina amplifichi ulteriormente la diseguaglianza sociale in un paradiso del capitalismo realizzato che da sempre ha costruito le sue fortune sulla deregulation, la mancanza di freni. Il gruppo Left21, per esempio, nell’aderire a Occupy, ha specificato che Pechino ha ragione nel sostenere che la riforma elettorale per le elezioni del 2017 – l’oggetto del contendere di questi giorni – rispetta la Basic Law (costituzione) di Hong Kong. Ma allora, aggiunge, è la stessa Basic Law a essere sbagliata. Perché “molte delle sue disposizioni sono nell’interesse del capitale – dice il documento di adesione – mentre non si fa riferimento alla vita delle persone. La clausola 107 impone al governo di Hong Kong di mantenere un bilancio in pari, mentre la clausola 108 stabilisce una politica di bassa fiscalità. Ecco perché i mezzi di sussistenza delle persone vengono da sempre erosi”, conclude il documento.

La questione, quindi, va molto oltre il diritto al voto. E non nasce dalle proteste di questi giorni. Un anno e mezzo fa, del resto, fecero notizia gli scioperi dei portuali di Hong Kong, che per quaranta giorni occuparono il molo Kwai Tsing, chiedendo aumenti salariali e una maggiore sicurezza sul lavoro. Il molto appartiene all’uomo più ricco d’Asia, il tycoon Li Ka-shing, un anziano signore che è “sir” per la Corona britannica in virtù del suo filantropismo. Lui lasciò intendere che se le agitazioni fossero continuate, avrebbe trasferito tutte le attività portuali a Shenzhen, nella Cina continentale, come un Marchionne d’Oriente. Ecco cos’è la Cina per molti hongkonghini: il rischio di esternalizzazione nel gigante della porta accanto, dove c’è ancora chi è disposto a lavorare per nulla. In una fase in cui Hong Kong sta già perdendo la propria centralità a favore di nuovi hub finanziari, come Shanghai. Guarda caso, in Cina.

In quell’occasione, due cose saltarono agli occhi oltre alla grinta dei lavoratori (che alla fine ottennero qualche parziale miglioramento): da un lato la loro paura di diventare “cinesi”, dall’altro la grande solidarietà che suscitavano nella società civile circostante. C’erano associazioni e persone comuni che portavano rifornimenti di ogni tipo alla tendopoli di fronte ai cancelli e, in giro per la città, gruppuscoli politici giovanili organizzavano azioni di boicottaggio e sensibilizzazione. C’erano già tutti gli elementi che oggi fanno Occupy.

di Gabriele Battaglia

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