“La Libia per l’Italia è la prima priorità”. Lo sosteneva solo pochi giorni fa a Catania Federica Mogherini, alto rappresentante Ue agli Affari esteri, durante il seminario dell’Assemblea Parlamentare della Nato. E a conferma delle preoccupazioni crescenti di questi ultimi mesi dovute alla guerra civile degenerata nel caos, si aggiunge la notizia diffusa ieri dalla tv araba Al Arabiya, che pubblica un video girato nella città di Derna in cui i miliziani di Ansar al Sharia sventolano le bandiere nere di Isis in territorio libico. “C’è un forte flusso di combattenti libici che rientrano in patria da Siria e Iraq”, spiega a IlFattoQuotidiano.it Arturo Varvelli, esperto di Libia dell’Istituto per gli studi di politica internazionale.

Jihadisti forti in Cirenaica: “Sostituiscono lo Stato”
“Il peso del jihad è forte, soprattutto in Cirenaica – continua l’analista dell’Ispi – Ansar al-Sharia è composta da molti reduci dall’Iraq o dall’Afghanistan. Questa formazione fa occupazione territoriale: in una zona dove lo stato non arriva, Ansar al-Sharia costruisce ospedali, fa beneficenza, svolge attività assistenziali, si pone l’obiettivo di essere un po’ come Hamas o Hezbollah. Questo gli dà il supporto della popolazione, ma solo in parte: la loro presenza a Bengasi è controversa e ci sono state anche manifestazioni molto partecipate, per protestare contro il loro modo di agire, di imporre posti di blocco, controlli di polizia ecc. Il generale rinnegato Khalifa Haftar è rientrato dagli Usa proprio per opporsi ad Ansar, con il supporto di Egitto ed Emirati. Del resto, l’Egitto di al-Sisi non può tollerare che alle sue porte ci sia una formazione jihadista che applica la Sha’ria”.

Isis ha un forte potere di attrazione mediatica, anche verso le formazioni terroristiche nordafricane. Secondo Varvelli, Ansar finora non ha particolarmente dimostrato di essersi affiliato a Isis. “Ha invece un forte flusso di combattenti libici che rientrano in patria da Siria e Iraq. Il battaglione al-Battar, ad esempio, è composto esclusivamente da libici che hanno combattuto in Siria. E questo è un elemento preoccupante a prescindere: dal fronte della guerra civile libica del 2011, fino alla Siria e all’Iraq, questi uomini hanno accumulato un’expertise militare diretta e ora, tornando, sono pronti a creare nuovi nuclei combattenti”.

Riguardo alla notizia di oggi della bandiera di Isis a Derna, il ricercatore spiega che non è la prima volta che i drappi neri compaiono in Libia. “Il punto è capire se dall’altra parte c’è un riconoscimento ufficiale da parte del sedicente Stato Islamico. Finora non è dato saperlo. Ma in fondo cambia poco: condividono la stessa strategia e l’esistenza o meno di un’affiliazione ufficiale non muta la sostanza. Sono e restano pericolosissimi criminali”.

L’origine del caos
Esiste oggi una forte polarizzazione politica fra islamisti e anti-islamisti. Ma è importante mantenere una distinzione. Spiega Varvelli: “Una cosa è Ansar al-Sharia in Cirenaica, la formazione terroristica che l’11 settembre 2012 ha ammazzato l’ambasciatore americano Chris Stevens, un’altra è la componente conservatrice rappresentata dalla Fratellanza Musulmana, integralista ma non terrorista. Nell’ultimo anno, questa contrapposizione si è riproposta anche sul piano militare: ogni forza politica si è alleata con le milizie che controllano il territorio. Con la caduta di Morsi in Egitto, la situazione si è incancrenita: i Fratelli Musulmani hanno perso il ruolo di interlocutore politico legittimo e ciò è stato da loro percepito come una minaccia alla propria esistenza, spingendoli a cercare un’alleanza militare con le milizie di Misurata, in contrapposizione al partito laico di Mahmoud Jibril”.

Il resto è storia recente: alle ultime elezioni la Fratellanza Musulmana, sconfitta, non ha riconosciuto il nuovo parlamento. “I neoeletti, sentendosi minacciati nella propria esistenza, hanno commesso l’errore fatale di lasciare la capitale per spostarsi a Tobruk, di fatto ponendosi sotto la protezione dell’Egitto di al-Sisi, e ciò ha aumentato i problemi. A Tripoli i misuratini e la Fratellanza hanno richiamato in vita il vecchio parlamento, spaccando in due il paese. A questo punto, finalmente è intervenuta l’Onu, che in queste settimane sta riconvocando le parti. Almeno si stanno parlando”.

La contrapposizione attuale è stata favorita da numerosi attori esterni: il Qatar e la Turchia hanno sponsorizzato i fratelli musulmani e le milizie di Misurata, mentre l’Egitto e gli Emirati hanno bombardato le postazioni della Fratellanza ad agosto e settembre; John Kerry due settimane fa ha convocato gli attori regionali ed europei per riconoscere il parlamento di Tobruk, che però non controlla la capitale, i ministeri, le banche, e si ritrova di fatto senza poteri.

L’unica exit strategy: riconciliare le tribù
Secondo il ricercatore dell’Ispi, la soluzione è una sola: “Avviare una riconciliazione nazionale il più inclusiva possibile, escludendo la forze jihadiste, ma includendo i fratelli musulmani, tutte le forze politiche e anche il sistema delle tribù e delle minoranze, una realtà spesso a sé stante”. Riguardo un possibile intervento militare, Varvelli è chiaro: “Ci sono fronti troppo numerosi perché sia efficace. E poi, ricordiamolo, ogni intervento militare deve avere una visione a lungo termine, sennò siamo destinati a ripetere gli errori, come quelli commessi in Libia nel 2011. Ora si sta facendo lo stesso con Isis: non c’è progettualità politica, si armano i curdi, ma si dimentica che nessuna decisione internazionale può essere presa senza che abbia delle conseguenze. Siamo miopi. Ogni intervento è come il tocco a una palla da biliardo e innesca una reazione, che poi non è più controllabile”.

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