“L’Ebola arriverà da voi se non lo fermiamo subito qui in Africa. E non arriverà attraverso i barconi, ma attraverso i voli in business class”. A dirlo è Gino Strada, che è partito per la Sierra Leone per aiutare i malati africani che aumentano di giorno in giorno. Dice di non leggere i giornali, non ha tempo e modo di farlo, ma è critico sull’allarmismo di casa nostra: “Sono tutti preoccupati soltanto dal fatto che prima o poi l’Ebola arrivi da noi, ci si chiede se siamo pronti e cosa succederà nel caso in cui bisognerà affrontare l’emergenza, ma intanto qui stanno morendo migliaia di persone”.

Qual è la situazione sul campo?
Siamo di fronte alla più grande epidemia di Ebola nella storia. E’ questa la situazione. Ed è diversa dalle precedenti perché si sta diffondendo da un paese all’altro. Qui in Sierra Leone la struttura sanitaria è estremamente fragile, non dimentichiamoci che è un paese che è uscito da anni e anni di guerra. Gli ospedali sono strapieni. Da metà settembre abbiamo un nuovo centro, a Lakka non lontano dalla capitale Freetown, con 22 nuovi posti letto ma non bastano, ci sono persone che rimangono fuori. Adesso gli ingegneri dell’esercito britannico costruiranno un nuovo ospedale che poi gestiremo noi, sarà pronto, speriamo, dalla seconda metà di novembre.

Come si svolge una giornata tipo con i malati?
E’ difficile e faticoso, ci sono tra gli ottanta e i novanta nuovi casi al giorno e non ci sono letti sufficienti. Un operatore in un’ora di trattamento a un paziente perde due chili e si indebolisce e così è più esposto. Qui c’è una temperatura oltre i trenta gradi e questo certo non aiuta.

Cosa può fare concretamente l’Occidente? Chi vi aiuta?
L’Occidente può fare tanto, con risorse economiche ma anche umane. Questa è un’epidemia che se non viene fermata diventerà come l’Aids. Per il momento la cooperazione inglese ci sta aiutando molto e anche il governo della Sierra Leone collabora anche se con le sue limitate possibilità. Ma ci vorrebbe molto di più. Ripeto, siamo focalizzati solo sull’arrivo di Ebola nel nord del mondo e questo non mi sembra un ragionamento etico. Ci sono stime che calcolano l’avanzata dell’Ebola in centinaia di migliaia di nuove vittime. E’ il momento di agire, questo lo dicono tutti, ma va fatto subito e con la coscienza che sarà uno sforzo enorme.

C’è personale medico italiano impegnato accanto a voi?
Questo è un paradosso, ci sono 15 persone pronte a partire dall’Italia, non parlo di volontari ma di medici e personale specializzato delle strutture sanitarie pubbliche. Ma non possono perché gli ospedali non hanno gli strumenti legali per lasciarli partire. In pratica finché il governo non dichiara lo stato di emergenza, come era stato per lo Tsunami, queste persone, che ci servono davvero, non possono partire. Questo vale per i dipendenti pubblici mentre per i privati è una contrattazione individuale. E’ una situazione che si deve sbloccare subito perché siamo già in ritardo.

Come trattate i pazienti dal momento che non esiste una cura?
Forniamo una terapia di supporto, principalmente con l’infusione di liquidi. Ora stiamo portando avanti un studio clinico perché è vero che si studiano i vaccini ma concretamente, anche se venisse scoperto, quanto ci metterebbe ad arrivare in Africa? Stiamo sperimentando l’impiego di un farmaco di uso comune in cardiologia. In laboratorio limita la penetrazione del virus, ora bisogna capire se funziona sul paziente. E’ difficile ma bisogna provare. Sono ricerche che portiamo avanti con l’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia e l’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma. Per ora è questo che possiamo fare ma ci serve aiuto.

di Caterina Grignani

da Il Fatto Quotidiano del 16 ottobre 2014

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