“È una vergogna che Washington, il donor principale nella battaglia contro Ebola, sia diplomaticamente estranea a l’Avana, il più coraggioso contributore. In questo caso, lo scisma ha conseguenze di vita o di morte, poiché gli ufficiali americani e cubani non sono attrezzati per coordinare gli sforzi globali ad alto livello. Ciò dovrebbe servire come urgente promemoria all’amministrazione Obama che i benefici provenienti dal ristabilire rapidamente le relazioni diplomatiche con Cuba sopravanzano di gran lunga gli svantaggi”.
Chi parla non è un pericoloso rivoluzionario, né un nostalgico del comunismo novecentesco. Queste parole sono apparse in un editoriale del New York Times, dal titolo “L’impressionante ruolo di Cuba su ebola“.
Solo pochi giorni fa Fidel Castro in persona aveva annunciato su Granma, l’organo ufficiale d’informazione, l’invio di altri 300 tra medici e infermieri in Guinea e Liberia, oltre ai 165 già presenti in Sierra Leone. Con questo impegno Cuba è di gran lunga il paese con il più cospicuo intervento sanitario diretto nelle regioni flagellate da Ebola, mentre tutti gli altri si limitano a invio di fondi e materiale sanitario.
E ciò, nonostante l’isola caraibica sia da decenni sotto un soffocante embargo e la sua popolazione viva in una povertà dignitosa ma implacabile. Del resto, la sanità cubana è rinomata, tanto che sono molti i capi di stato e i personaggi illustri latinoamericani che negli anni si sono recati a L’Avana per usufruire delle cure di cui necessitavano, da Maradona a Hugo Chavez. E – qualunque cosa si pensi della rivoluzione cubana – resta vero che la popolazione ha accesso universale e gratuito alle cure. I medici cubani sono spesso in prima linea negli interventi di emergenza anche all’estero (dall’uragano Katrina del 2005 all’epidemia di colera che nel 2010 colpì Haiti dopo il terremoto), ma la pandemia in corso supera di gran lunga le sfide passate.
È per questo che l’editoriale del New York Times si spinge a chiedere che gli operatori sanitari cubani che venissero infettati dal virus abbiano accesso al centro di trattamento appositamente costruito dal Pentagono a Monrovia, capitale della Liberia, e anche agli aerei attrezzati per l’evacuazione, proprio perché il rischio che consapevolmente queste persone si assumono va a vantaggio di tutta la comunità internazionale.
Ed è per questo che l’editoriale del quotidiano statunitense conclude richiamando proprio le parole pronunciate da Fidel pochi giorni fa, che invitava Stati Uniti e Cuba a mettere da parte le differenze, almeno temporaneamente, per combattere l’epidemia mortale. “Ha assolutamente ragione”, conclude lapidario il New York Times.
Chissà se queste parole ardite saranno ascoltate. Chissà se l’amministrazione Obama offrirà assistenza ai medici cubani. Chissà se davvero ciò comporterà una ripresa delle relazioni diplomatiche fra i due paesi e la fine dell’embargo che strangola l’isola dal 1960 e che sempre più spesso viene messo in discussione all’interno e all’esterno degli Stati Uniti, come un residuo di un passato ormai sepolto. Ecco, se accadesse tutto ciò, al micidiale killer Ebola sarebbe riuscito un miracolo che nessun altro finora è stato capace di compiere.