Avrei voluto scrivere che il successo di X Factor è meritato. Ai miei amici musicisti avrei voluto dire che capisco le loro ragioni, che la mercificazione del talento è una brutta cosa, ma che i tempi cambiano, e che oggi senza la visibilità che solo un talent show può darti non c’è verso di uscire dall’anonimato. E non basta più saper fare il giro di Do con la chitarra, adesso devi imparare a curare la tua immagine, ammiccare con disinvoltura alle telecamere, muoverti nel modo giusto sul palcoscenico e anche fuori, e soprattutto sul web. Perché i casi sono due: o diventi virale, oppure gli anticorpi del sistema ti rigettano negli ultimi dieci piano-bar sopravvissuti alla crisi.
Poi, gli avrei fatto notare che gli autori di X Factor tutto ciò lo sanno bene, e non lo dico io – avrei continuato – lo dicono i numeri: più di 50 mila tweet solo con l’hashtag #XF8 è un risultato che non può che essere frutto di una strategia vincente. E a quel punto avrei aggiunto che se non hanno ancora capito a cosa serve un “hashtag”, è perché sono vecchi, e che la finissero di lamentarsi che è tutto troppo veloce. Nell’era di internet la durata standard di una canzone – all’incirca quattro minuti – è un’infinità di tempo, e perciò dobbiamo abituarci al minuto e quaranta: lo standard di X Factor per l’appunto. Lo hanno capito persino alcuni direttori d’orchestra, come per esempio quel Matthieu Mantanus che sabato scorso, a “Che fuori tempo che fa”, ha eseguito con la sua Jeans Symphony Orchestra una sorta di “Bignami” di Beethoven, comprensivo di dissertazione storica, qualche accenno della Pastorale, e l’intero terzo movimento della Sesta Sinfonia. Il tutto senza oltrepassare il primo blocco di trasmissione.
Poi mi sarei rivolto ai miei amici e colleghi che si occupano di tv. A loro avrei voluto dire che X Factor rappresenta il futuro del piccolo schermo. E che se i movimenti frenetici delle telecamere gli provocano la nausea, la ragione è una soltanto: sono vecchi pure loro. Inoltre, avrei dichiarato che il Festival di Sanremo ha fatto il suo tempo, che nello stesso arco temporale, pari a quello di una puntata della storica kermesse sanremese, ci sono adolescenti che sarebbero in grado di scambiarsi una dozzina di meme, condividere la visione di altrettanti gameplay, e scaricare l’ultimo videoclip del loro youtuber preferito. E gli avanzerebbe persino un po’ di tempo per preparare l’esame di maturità. Infine, avrei informato quegli stessi amici – addetti ai lavori televisivi – che se non hanno idea di cosa significhino le parole “meme”, “gameplay”, e “youtuber”, è giunto per loro il momento di ritirarsi dalle rispettive professioni e ripiegare sull’orticoltura.
Ecco, questo è quello che avrei voluto dire. E l’avrei fatto, se solo avessi scritto questo post prima di giovedì scorso. Prima cioè della prima puntata del “live” di X Factor 8. Invece, dopo quelle interminabili tre ore e mezza di diretta devo ammettere che, al netto della regia, delle luci, delle coreografie, delle scenografie, e senza considerare quel figone di Mika, quel furbacchione di Morgan, quella simpaticona della Cabello e Fedez – al quale, sarà perché anch’io sto invecchiando, ma non riesco proprio ad attribuire alcun accrescitivo che non risulti irriverente – insomma se togli tutto e lasci solo le canzoni, giovedì sera non sembrava di stare su Sky Uno, ma al concorso canoro della “Sagra dei osei”. Con tutto il rispetto per gli osei, che temo sarebbero stati più intonati di alcuni concorrenti di X Factor.
Tuttavia, ciò che mi ha indispettito al punto da farmi cambiare idea sul programma, non è neanche la penuria di talento – sebbene un po’ non ne guasterebbe in un talent – ma piuttosto “il grande inganno” con il quale vorrebbero farci credere che quella trasmissione rappresenti per i concorrenti, il trampolino di lancio per la loro futura professione di cantante. Al contrario, ho l’impressione che dalla maggior parte di essi, X Factor sarà ricordato come il momento più alto della loro esperienza artistica. Sarebbe opportuno che qualcuno avesse l’onestà intellettuale di avvertirli. Non per scoraggiarli, ci mancherebbe altro, ma per suggerirgli di alzare i loro cachet il più possibile, poiché quando l’effetto X Factor finirà – e non ci vorrà molto – dovranno tornare a cantare nelle sagre di paese. Tipo la “Sagra dei osei” di cui sopra, dove presumo che la paga per gli artisti sia rappresentata dagli osei stessi o poco più, con buona pace dei giovani cantanti vegetariani.
E invece, la frase ricorrente della puntata di giovedì è stata “futuro discografico”. Una specie di mantra intonato a turno da tutti i giudici della gara, allo scopo di convincerci che per diventare una pop-star sia sufficiente superare un provino, e poi cantare per un minuto e quaranta davanti a una telecamera. Ora, a prescindere dagli insindacabili sogni di gloria di chiunque, la domanda è: come si fa a parlare di futuro discografico di qualcuno, quando è la discografia stessa che ha smesso di averne uno? Sarebbe come tentare di fare l’upgrade a un telegrafo. A proposito, vi do una brutta notizia: se non sapete cosa significa la parola “upgrade”, siete irrimediabilmente vecchi anche voi.