Quello che era nell’aria da giorni è ora una certezza. Il bando sul destino delle aree Expo è andato deserto: nessun privato si è mostrato interessato a presentare un’offerta per dare vita a un’operazione immobiliare che in tempi di crisi attira ben pochi. Così accanto alle inchieste giudiziarie e ai ritardi per arrivare pronti all’appuntamento del primo maggio 2015, nella tormentata storia dell’esposizione si apre un nuovo fronte: che cosa rimarrà del milione di metri quadri a cavallo tra Milano e Rho una volta che i padiglioni verranno smontati uno a uno.
Le offerte dovevano essere presentate entro le 12 di oggi, 15 novembre. Ma nessuna busta è arrivata alla sede di Arexpo, la società con Comune di Milano e Regione Lombardia come soci principali, che ha acquistato gran parte dei terreni dalla Fondazione Fiera Milano e dalla Belgioioso della famiglia Cabassi, pagandoli intorno ai 150 milioni di euro. Una scelta, spinta in particolare dall’ex governatore Roberto Formigoni, che è stata definita il ‘peccato originale’ dell’Expo: dare vita a un’esposizione universale su un’area privata, anziché pubblica. E ora le conseguenze si sentono tutte. Perché per rientrare dell’investimento iniziale, a cui vanno aggiunti gli oneri finanziari e quelli per le infrastrutture, i terreni dovrebbero essere venduti per 315 milioni di euro. Era questa la base d’asta del bando pubblicato tre mesi fa, già in ritardo di oltre un anno sui piani originari.
La gara prevedeva poi una serie di paletti ereditati dall’accordo di programma firmato dalla giunta Moratti, in particolare un limite di circa 480mila metri quadri sulle volumetrie edificabili e l’obbligo di mantenere 475mila metri quadri come parco. Per allontanare il più possibile il rischio cemento nel bando si era anche deciso di premiare con un punteggio maggiore la qualità del progetto e l’eventuale scelta di costruire meno di quanto consentito, piuttosto che l’offerta economica. Ma negli ultimi mesi sono via via passate dall’annuncio all’auto eliminazione tutte le possibili proposte per far nascere nel post Expo, accanto a un nuovo maxi quartiere residenziale, un’area di interesse pubblico. Così è successo per le voci sulla nuova sede Rai, così come per il nuovo stadio del Milan, un’ipotesi su cui molto ha puntato il presidente lombardo Roberto Maroni, ma che non ha mai convinto del tutto la giunta Pisapia.
Ora è tutto da rifare. Da un lato Palazzo Marino e Pirellone dovranno evitare che dopo l’asta deserta, deserti e abbandonati rimangano anche gli spazi quando i visitatori non saranno più lì ad aggirarsi tra i cibi dei diversi paesi del mondo. Dall’altro lato dovranno evitare di svendere le aree, perché questo vorrebbe dire aprire un buco nei conti pubblici, oltre che rischiare l’intervento della Corte dei conti. Probabile che per rendere più appetibile l’operazione immobiliare, ora dell’area Expo venga fatto uno spezzatino. In tal caso quello che doveva essere un progetto unitario verrà diviso in più lotti da mettere singolarmente all’asta.
Intanto una cosa è certa. I 30 milioni di euro che sarebbero dovuti entrare nelle casse di Arexpo come caparra per il momento non entreranno. E le banche sono già alla porta per chiedere conto delle nuove garanzie che la società dovrebbe mettere entro fine anno sui prestiti concessi per l’acquisto dei terreni. Come se non bastassero già i problemi di Expo a rispettare i tempi nella costruzione del padiglione italiano. E a sbrogliare la vicenda dell’Albero della vita. Altro simbolo dell’esposizione promesso, e oggi vicinissimo al destino di essere tagliato.
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