Adesso è tutto chiaro. Dopo aver ascoltato Yoram Gutgel, il sedicente guru economico di Renzi ospite ieri sera dalla Gruber, non ci sono più dubbi: soltanto uno stuolo di camerieri poteva allestire quella pubblica messa in scena di servilismo chiamata jobs act. La presunta ricetta per rilanciare l’economia attraverso licenziamenti a go-go coniugati con tagli salariali. In cambio della benevolenza di lorsignori (si tratta di mega-manager arraffa stock option o di imprenditori capaci di fare i fenomeni con i soldi altrui). Comunque, quell’un per cento di privilegiati e di potenti a cui queste mezzecalzette si prosternano a baciare la pantofola. Magari in cambio di un buffetto o di un estemporaneo invito ad un rinfresco padronale in villa.
Mezzocalzismo impietosamente evidenziato (quanto volontariamente?) dalla conduttrice, mettendo il dimesso Gutgel a confronto con un’economista di taglio internazionale quale Mariana Mazzucato; la studiosa a cui sono ben note le dinamiche dell’innovazione trainate da una politica industriale in cui la ricerca pubblica svolge il ruolo decisivo. Come avviene – al di là delle chiacchiere sugli imprenditori privati “cavalieri della valle solitaria” – in tutte le economie avanzate. Appunto, dagli Stati Uniti fino alla Germania.
Sicché faceva quasi pena sentire pigolare il consigliori renziano di un’Italia dipinta con i colori che solo un “brambilla brianzolo” potrebbe avvallare: i mancati investimenti e i blocchi patologici della crescita d’impresa per colpa della triade burocrazia, tasse e costo del lavoro. Con una pennellata di passaggio sull’articolo 18.
Quando le ragioni sono tutt’altre. Come la stessa Confindustria ammetteva quando non si dimostrava disponibile a cavalcare il revanscismo delle sue componenti più becere. Difatti, tre lustri fa proprio l’organizzazione degli industriali aveva promosso una ricerca, in collaborazione con l’istituto Taliercio, sulla “questione dimensionale” che dichiarava a chiare lettere come l’italico nanismo delle aziende trova la propria origine nella struttura proprietaria familiare: non si cresce perché i padroncini e i loro congiunti hanno paura di vedersi scappare di mano il controllo della situazione. Nell’inconfessato timore di non essere all’altezza di un salto di qualità competitivo.
Difatti la vera origine della crisi economica italiana è che ci si affida a queste ownership d’impresa che presidiano senza slanci di fantasia e coraggio prima di tutto le proprie posizioni di potere. Come dimostra il fatto che – rare eccezioni a parte – le nostre fabbriche da quarant’anni si sono sedute su una gamma merceologica circoscritta ai beni per la casa e la persona: prodotti a bassissima soglia tecnologica di entrata e per questo copiabilissimi. Dunque, ampiamente copiati dai Paesi di nuova industrializzazione.
Sembra abbastanza evidente che dando mano libera a questa banda di gente impegnata a covare uova di pietra non deriverà altro che un’opaca difesa al ribasso di posizioni declinanti. Mentre solo un Grande Piano di intervento pubblico, che attivi e guidi fertili incontri tra ricerca e impresa attraverso scelte da sistema-Paese, può invertire le tendenze disastrose in atto. Intervento sotto forma di investimento ma anche di scelte mirate nell’allocazione di tali risorse. E di controllo. Come fanno gli Stati Uniti, la Cina e la Germania, ad esempio in materia di fonti energetiche alternative. Come proponeva di fare qui da noi il grande Paolo Sylos Labini nel campo della meccatronica (l’elettronica innestata sulle antiche eccellenze italiane nella meccanica).
Ma per fare questo bisognerebbe avere maturato un qualche giudizio meno stereotipato (e servile) nei confronti delle vicende economiche italiane degli ultimi decenni. E il coraggio di liberarsi da vassallaggi psicologici nei confronti di una genia che ha trasformato l’innovazione, l’Hi-Tech o le specializzazioni competitive in meri fantocci da convegno. Bisognerebbe che la banda Renzi fosse una classe dirigente.