Lo scontro tra chi insiste a preservare le tutele dell’art.18 e chi invece vuole eliminarlo riprenderà la prossima settimana al Senato quando approderà di nuovo il “pacchetto” di riforme contenute nel renziano Jobs Act in fase di gestazione su spinta del governo.

jobsact-renzi

Nel mio precedente articolo (Art.18. Non solo tutele, ma fondamento di una stabile economia) ho già messo in evidenza un aspetto troppo poco discusso sui benefici che derivano alla società civile dall’art.18, rispetto al filo-liberismo sfrenato di chi lo vorrebbe abolire tout-court, o perlomeno snaturare il più possibile sbandierando esigenze di elasticità nei volumi occupazionali delle imprese.

Chi infatti reclama l’abolizione delle tutele dello Statuto dei Lavoratori dimentica troppo facilmente che esso è in vigore da circa 40 anni e, non solo ha già attraversato pesanti crisi senza creare alla generalità delle imprese problemi insolubili, ma ha persino contribuito in modo determinante, sul piano economico generale, al formarsi di una classe reddituale media che ha garantito fino a pochi anni fa (in Italia fino al 2010) una importantissima pianificazione del proprio futuro a milioni di famiglie di lavoratori salariati italiani, quelle che (non dimentichiamolo mai!) sono state anche la colonna vertebrale delle entrate fiscali per tutto questo periodo.

L’economia italiana è quindi cresciuta ininterrottamente fino agli anni 90 non “malgrado” l’art.18, ma proprio grazie ad esso.

La rigidità impressa al mercato del lavoro dall’art.18 è stata tutto sommato solo un piccolo problema per le imprese, uno dei tanti che le imprese hanno e che hanno sempre brillantemente superato quando l’economia non s’inceppa in ben più gravi rigidità (come quelle conosciute dall’Europa a partire dal 2011!).

Che la rigidità del mercato del lavoro sia un piccolo problema, perfettamente sopportabile dalle imprese, è provato dagli equivalenti problemi che esistono nei paesi dove la tutela dell’art. 18 non c’è e quindi c’è molta flessibilità.

La flessibilità è un bene per le imprese, ma e’ un male per lo sviluppo armonico della società civile. Nelle imprese americane (vedasi articolo precedente) dove questa rigidità non c’è, è la mancanza di un impiego stabile a generare instabilità economica, ne derivano quindi problemi persino più gravi sul piano sociale.

E’ vero che non è compito delle imprese occuparsi dei problemi sociali, ma è vero anche che ignorarli, seppure nell’immediato fa male ad altri, nel medio-lungo periodo creerà problemi gravi anche a loro. Conviene perciò pianificare i cambiamenti in collaborazione tra tutte le parti. Quello del lavoro per tutti è tra tutti proprio il problema più grave.

“There are very few problems in life that a good job can’t fix” (Ci sono ben pochi problemi nella vita che un buon lavoro non può risolvere) dice Michael Mc Millan, che dirige lo sviluppo della forza lavoro in città come St.Louis e Ferguson (dove è tuttora in corso una rivolta sociale contro l’uccisione di un ragazzo nero da parte di un poliziotto).

Ma se nei ghetti “neri” delle periferie americane il problema dei ragazzi allo sbando viene inquadrato ancora come grave problema razziale, problemi analoghi li abbiamo da tempo anche nelle nostre città, specialmente al sud, dove la disoccupazione giovanile sta assumendo livelli assolutamente insostenibili sia per la società civile che per la nazione. Se ne vedono già segnali molto allarmanti.

E proprio in un momento come questo di grave tensione sui problemi occupazionali Renzi sceglie di eliminare l’unico efficace argine contro queste tensioni?

Fin dagli anni 90 diversi presidenti confindustriali hanno, di tanto in tanto, alzato le lamentele della loro categoria contro la rigidità imposta dall’art.18. Ma è sempre stato sostanzialmente un gioco delle parti tra imprese, sindacati e governo.

Forse ho già raccontato di quella volta che, durante una visita aziendale ad una impresa che aveva chiesto un finanziamento alla mia banca, io, che avevo già analizzato i bilanci della sua impresa, ho detto all’imprenditore che la redditività della sua azienda non giustificava l’entità della richiesta. Lui allora mi ha spiegato (appellandosi al segreto bancario) che nell’anno successivo era previsto il rinnovo del contratto aziendale di lavoro e che, per tale ragione, la redditività di quell’anno era stata mantenuta bassa mediante artifici contabili.

Il gioco delle parti è sempre presente, ma non si capisce proprio il clima da “ultima spiaggia”, spinto fino al voto di fiducia, praticato dall’attuale inquilino di palazzo Chigi. Morire (metaforicamente parlando) per l’art.18? E’ comprensibile per Landini (per difenderlo) ma non per Renzi (per eliminarlo). Persino Squinzi, l’attuale presidente di Confindustria, di cui ho da sempre profonda stima, ci ha messo mesi prima di schierarsi al fianco di Renzi nella guerra all’art.18. Perche’? Perché sa benissimo che i veri problemi delle imprese sono altri. Quelli per esempio della mancanza di liquidità (drenata in gran parte dalle banche per le loro operazioni finanziarie e per i loro aumenti di capitale) e dai criminali vincoli del Patto di Stabilità, non dallo Statuto dei Lavoratori, che ha comunque consentito alle imprese di prosperare per quasi mezzo secolo.

Per le riforme sarebbero ben altri gli interventi che Renzi e la sua squadra dovrebbero mettere in campo da subito, e un buon esempio viene dato proprio nell’articolo già citato poco sopra, dal titolo: “Job training that works” (Addestramento al lavoro che funziona). Ne riparleremo presto.

Renzi quindi dovrebbe spiegare con sincerità al Parlamento e ai cittadini “chi” gli ha “suggerito” di mettere l’abolizione (o almeno la neutralizzazione) dell’art.18 come elemento centrale ed irrinunciabile delle sue riforme, dato che agli imprenditori glie ne importa veramente poco e ai cittadini in stragrande maggioranza ancora meno, dato che i più nemmeno sanno cos’è (i tg fanno disinformazione quando lo spiegano come semplice tutela contro le discriminazioni).

Se fosse veramente furbo e pragmatico come vuol far credere (e non ci fosse nessuno dietro ad obbligarlo), Renzi toglierebbe subito dal suo pacchetto l’insensata riforma dell’articolo 18 e si prodigherebbe sulle riforme serie invece che inventarsi “totem” di Texwilleriana memoria.

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