“I noodle istantanei sono in pentola”, ha scritto qualcuno su un forum, riferendosi al soprannome “maestro Kang” – che è anche una marca di spaghetti taiwanesi – con cui si parla in rete di Zhou Yongkang, l’ex temutissimo capo della sicurezza cinese. La tigre più tigre è finita in gabbia, dunque. Il 72enne duro di Pechino è stato espulso dal Partito comunista e arrestato, sulla base di accuse che vanno dalle tangenti alla diffusione di segreti di Stato, passando per l’appropriazione di beni pubblici e favori ad amici, familiari e amanti. Lo scorso luglio era stato formalmente messo sotto inchiesta, nell’ambito della campagna anticorruzione “contro le tigri e le mosche”.
Si era ritirato dalla politica nel 2012, al congresso in cui prese il potere Xi Jinping. Precedentemente, faceva parte del Comitato permanente del Politburo (dal 2007), cioè la stanza dei bottoni: i nove – oggi sette – che di fatto governano la Cina. Era anche a capo del Comitato che controlla le forze di sicurezza interna, la polizia, i tribunali, i pubblici ministeri e le carceri. È il politico di più alto livello che finisce male dai tempi della Rivoluzione Culturale e della Banda dei Quattro, cioè da almeno 30 anni. Deng Xiaoping aveva stabilito una regola non scritta: mai colpire i propri parenti e chi è andato in pensione. Nel rompere questa norma, la nuova leadership fa capire che si è emancipata anche dal denghismo, uscendo simbolicamente da una fase che ha plasmato il Paese negli ultimi trent’anni.
Perché Zhou? La campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping al momento del suo insediamento ha tre obiettivi principali e l’ex responsabile della sicurezza li sintetizza alla perfezione.
Primo: colpire i nemici politici. Zhou è sicuramente un nemico, nume tutelare di Bo Xilai, il leader della metropoli di Chongqing caduto in disgrazia e poi processato per omicidio due anni fa. Si dice addirittura che al momento dello scandalo-Bo, l’allora responsabile della sicurezza avesse allertato i propri uomini per tentare un colpo di Stato. Notizia non confermata, ma di sicuro Zhou è il personaggio più rappresentativo di una consorteria avversa all’attuale leadership.
Secondo: si tratta di dare un segnale forte a un Paese pervaso dalla corruzione dove, soprattutto in una fase di rallentamento economico, i cinesi comuni sono esasperati dal vedere funzionari con le tasche piene mentre loro rimangono al palo. Familiari e amici di Zhou si sono arricchiti nei grandi conglomerati energetici di Stato e non stupisce che la nota con cui ieri il Politburo ha sancito la sua fine reciti che l’ex mammasantissima della sicurezza ha abusato del potere “per aiutare parenti, amanti e amici, ottenendo enormi guadagni dalle imprese che controllava, con conseguenti gravi perdite per le proprietà pubbliche”.
Terzo e più importante: nel far fuori l’uomo che si era ritagliato un feudo personale nella grande industria pesante di Stato, inquinante e per molti versi inefficiente, Pechino colpisce gli interessi costituiti che si oppongono, frenano o deviano il tentativo di trasformazione della Cina in un’economia avanzata.
Ora si discute della pena che toccherà a Zhou dopo l’inevitabile condanna. L’accusa di avere diffuso segreti di Stato lascia presagire che il tribunale ci andrà con la mano pesante. Diversi esperti cinesi concordano su una “condanna a morte sospesa”, istituzione tutta cinese, in vigore fin dai tempi di Mao, che significa di fatto l’ergastolo: pur comminando il massimo della pena – una sanzione anche morale e soprattutto esemplare – si concede al condannato una seconda possibilità, promuovendo l’immagine di un potere inflessibile ma clemente. Il più noto caso recente di pena di morte sospesa è stato quello di Gu Kailai, la moglie di Bo Xilai, condannata per l’omicidio del cittadino britannico Neil Heywood. Non a caso, erano tutti protegé di Zhou Yongkang, la grande tigre finita ora in gabbia. O lo spaghetto cotto a puntino.
di Gabriele Battaglia