I disastri alluvionali dell’autunno hanno scosso la politica, che ancora una volta ha giurato di voler girare pagina. Ci fidiamo, anche se con tutte le pagine nuove che la mia generazione, quella dei baby boomers, ha messo in archivio potremmo pubblicare un romanzo del peso di Guerra e Pace. Un libro per la maggior parte in bianco. In Italia la questione idro-geologica è iniziata tre mesi dopo la breccia di Porta Pia con la grande alluvione di Roma del 1870. Durante il fascismo scomparve, ma solo dai media. All’epoca i fiumi si coprivano, come accadde al Bisagno di Genova. Lo stesso figlio del progresso futurista che, durante il Ventennio, produsse il tombamento del Seveso e dei Navigli a Milano. E ormai tutti sanno l’effetto che fa.
La questione riemerse nel dopoguerra con la tragedia del Polesine (1951) e le terribili alluvioni in Calabria, Campania e Sardegna, mentre passarono quasi inosservati altri eventi minori, come le due alluvioni genovesi del 1951 e quella del 1953, quando le bare divelte nel Cimitero Monumentale di Staglieno percorsero mezza città e da allora ogni genovese sa che è meglio prenotare un loculo in alto. Il Piano Trentennale del Governo si focalizzò sui grandi fiumi e le sistemazioni forestali, secondo lo schema logico della bonifica integrale di fascista memoria. Ma vennero spesi meno della metà dei soldi stanziati e il Piano morì di consunzione.
Poi vennero Agrigento, Firenze, Venezia e il Veneto nel 1966, il Piemonte nel 1968 e Genova nel 1970. La Commissione De Marchi licenziò quell’anno un piano organico a scala nazionale. Una visione lungimirante, che si tradusse in progetti importanti, come lo scolmatore del Bisagno a Genova: anno 1971. E i genovesi lo attendono da allora.
La difesa del suolo ha percorso le sue mode. Negli anni ’50 e ’60 si progettavano soprattutto argini, murazzi e muraglioni, come a fine ’800. Negli anni ’70 gli scolmatori, che non solo per il Bisagno ma anche per il Seveso sarebbero l’unica soluzione per garantire alla città un rischio accettabile. E si parlò per un po’ anche di dighe. Invece di aumentare la conduttività idraulica, le dighe laminano la piena, addolcendone il picco. Delle dighe previste sull’Arno (quasi 20) ne fu realizzata una soltanto, anche perché del flusso dei finanziamenti promessi non si vide mai neanche l’ombra. E Venezia ha visto pochi giorni fa il primo test del Mose, che da neolaureato feci dondolare per primo in laboratorio. Era il 1975.
La ricaduta negli anni ’70 fu positiva. Si diffuse una cultura scientifica che inserì l’Italia tra le nazioni più progredite. Pietre miliari furono i corsi di laurea inter-disciplinari: il primo nella nuova Università della Calabria, poi venne l’ingegneria ambientale nel Politecnico di Milano. Era il 1989. Nello stesso anno una legge organica introdusse i Piani di Bacino, che anticipò molti aspetti della Direttiva europea. La stessa direttiva che oggi è in larga parte disattesa, dopo lo svuotamento di quella legge proprio quando, nel nuovo millennio, la frequenza dei disastri aumentava. Intanto cambiò anche la moda e si iniziò a sparare una grandinata di casse di espansione, che è un modo diverso di laminare le piene, meno impegnativo delle dighe in termini di impatto mediatico. Di rado sono state realizzate, spesso con risultati mediocri sotto il profilo ambientale. E talvolta anche sotto quello idrologico.
Finora, da un assestamento di bilancio all’altro, mai si è avuta la certezza delle risorse che il paese metteva in gioco per affrontare la questione idro-geologica. Oggi si cambia pagina? Questa nuova pagina contiene un felice epilogo? La cultura tecnica, sia in ambito pubblico sia dei soggetti privati, è attrezzata a evitare le inutili esibizioni muscolari e gli sprechi di risorse?