E’ braccio di ferro tra sindacati e governo nel giorno dell’incontro dei segretari confederali con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Da un lato c’è il rebus del ricollocamento dei 20mila dipendenti delle province, dall’altro tutti i nodi intorno ai decreti attuativi del Jobs Act. Il primo, quello sulla disciplina del contratto a tutele crescenti, è in fase di limatura e arriverà sul tavolo del Consiglio dei ministri il 24 dicembre. Ed è in corso, ha confermato Poletti, anche la stesura del decreto sui nuovi ammortizzatori. Il vertice di venerdì si è chiuso con toni polemici: il segretario generale dell’Ugl Paolo Capone ha sottolineato come il ministro non abbia presentato alcun testo rendendo impossibile discutere sui dettagli e Susanna Camusso (Cgil) ha detto che dal governo “non sono state fatte cifre, quindi credo che le redazioni dei giornali siano più informate di quanto lo siamo stati noi in questa sede”. “Si sono ripresentati ancora una volta senza uno straccio di documento”, ha rincarato Carmelo Barbagallo, segretario della Uil, e “in testi così complessi anche una virgola spostata può dare spazio a strumentalizzazioni”.
Ma le principali contestazioni si appuntano su alcuni specifici punti su cui nei giorni scorsi si sono rincorse indiscrezioni: l’ammontare dell’indennizzo minimo per i licenziamenti ingiustificati, la possibilità di mandare via un lavoratore (senza rischiare di doverlo reintegrare) con la motivazione dello “scarso rendimento“, le norme sulla conciliazione e i dettagli sulla nuova Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) che dovrà sostituire la cassa integrazione per i lavoratori di aziende non più in grado di rimettersi sul mercato.
Sul fronte degli indennizzi, Camusso ha commentato polemicamente che quello che è stato illustrato da Poletti è un “contratto a monetizzazione crescente” anziché a tutele crescenti. Come è noto, infatti, si passa dalla tutela reale costituita dalla reintegrazione nel posto di lavoro alla “monetizzazione di quella tutela”, che si trasforma in una somma di denaro. Ora però va deciso il quantum. Stabilire dove mettere l’asticella è fondamentale, anche alla luce delle polemiche innescate da un rapporto della Uil in base al quale, con la decontribuzione per i nuovi assunti che scatta dal 2015, un risarcimento pari a un mese e mezzo di retribuzione per ogni anno di lavoro al datore di lavoro permetterà all’imprenditore che assume e licenzia prima della stabilizzazione di guadagnarci. Poletti ha detto che l’esecutivo non ha ancora trovato la quadra. I sindacati dal canto loro chiedono garanzie. Secondo la Uil la somma minima dovrebbe andare dai 3 ai 6 mesi “per il primo anno, come deterrente”, per creare “una sorta di zoccolo duro ed evitare che si parta da zero favorendo i licenziamenti”. Per le imprese con meno di 15 dipendenti, alle quali già oggi non si applica l’articolo 18, l’indennizzo dovrebbe restare quello attuale, che è di 2,5 mensilità.
Poletti, poi, non ha confermato né smentito le indiscrezioni sul fatto che tra le fattispecie di licenziamento “economico e organizzativo” – quello per cui non sarà più previsto il reintegro – sarà compreso anche quello per i casi di “scarso rendimento” del lavoratore”. Il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, ha definito “aberrante” questa ipotesi: si tratterebbe, ha detto, di “una modalità arbitraria e unilaterale che consegnerebbe nelle mani del solo datore di lavoro il destino dei suoi dipendenti”. Il sindacato la pensa allo stesso modo: Capone, dopo il vertice al ministero, ha commentato che se la norma passasse “il primo a dover essere licenziato sarebbe Renzi e il suo governo”. Ma secondo il giuslavorista Pietro Ichino, senatore di Scelta civica, già oggi in base alla giurisprudenza lo scarso rendimento può costituire motivo giustificato per licenziare.
Passando alle fattispecie in cui il reintegro resterà possibile, non piace a Ncd e alle imprese l’ipotesi di prevederlo in tutti i casi in cui “il fatto materiale” per cui il lavoratore è stato mandato via “non sussiste“. Quindi rispetto alla riforma Fornero si restringe al fatto materiale (nella legge del 2012 si parlava genericamente di “fatto”) e si elimina la parte che faceva riferimento a quanto previsto dai contratti collettivi sulle sanzioni. Il problema è che secondo una frangia della maggioranza questo allarga troppo il campo e lascia eccessiva discrezionalità ai giudici. Gli imprenditori, peraltro, chiedono anche che sia previsto l’”opting out”, cioè la possibilità di pagare comunque un indennizzo al posto del reintegro.
Per quanto riguarda gli incentivi per ridurre il contenzioso tra datore di lavoro e lavoratore licenziato, Poletti ha confermato che sarà prevista una “conciliazione espressa” con una tassazione più favorevole. Ma non è ancora chiaro se passerà l’ipotesi dell’esenzione fiscale totale dell’indennizzo deciso in quella sede. Nebbia fitta anche sui nuovi ammortizzatori: Poletti ha anticipato che “c’è la volontà di unificare Asp e mini Aspi ampliando la platea dei beneficiari ma evitando criteri opportunistici per non danneggiare nessuno”. In più “c’è la volontà di estendere l’Aspi anche ai collaboratori”. E, stando ai rumor, anche a chi ha avuto un contratto di pochi mesi. Ipotesi che però farebbe lievitare i costi per le casse pubbliche.