Sugli ostaggi nelle mani dei gruppi armati che operano in Siria e in Iraq, le informazioni sono scarse. Ancora meno, su quelli che non sono europei o nordamericani.
Razan Zaitouneh, scrittrice, attivista, presidente del Centro di documentazione sulle violazioni dei diritti umani in Siria, insignita nel 2011 del premio Sakharov per la libertà di pensiero, risulta scomparsa dal 9 dicembre 2013 insieme al marito Wa’el Harnada e a due loro colleghi, Samira Khalil e Nazem Hamadi.
I quattro sono stati rapiti nella sede del Centro a Duma, una delle città della regione della Ghouta orientale controllate dai gruppi dell’opposizione armata. La regione è sotto l’assedio delle forze governative dal luglio 2013. Secondo le Nazioni Unite, le 150.000 persone che vivono nell’area hanno ricevuto gli ultimi aiuti alimentari nel maggio di quest’anno.
Oggi lascio lo spazio di questo blog a Munira al-Hamwi, madre di Razan:
“Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su mia figlia, Razan Zaitouneh. Non sono una scrittrice né una giornalista ma cercherò di buttare giù quello che ho in mente. Non voglio parlare del lavoro di Razan e dei risultati che ha ottenuto, l’hanno già fatto molti altri.
Non dimenticherò mai i giorni dell’inizio della rivolta in Siria, quando Razan decise di non farsi più vedere in pubblico per evitare di essere arrestata. Lasciava la nostra abitazione solo di notte e in modo da non essere riconosciuta. Ogni volta che mi mancava, cercavo d’incontrarla in segreto. Le dicevo più volte di lasciare il paese, come avevano fatto alcuni suoi amici. Lei scuoteva la testa e con un sorriso triste rispondeva: ‘No, non lo lascerò’. Tornavo a casa sconsolata e pregavo Allah perché la proteggesse, sperando di poterla rivedere ancora un’altra volta.
Rimasi sconvolta quando mi disse che aveva intenzione di spostarsi nella Ghouta orientale. Quando le chiesi il motivo, rispose ‘Mamma, è una zona sicura. Lì potrò stare al riparo e muovermi liberamente, non verrò minacciata da nessuno’. Nonostante il dolore e la tristezza per la sua decisione – che voleva dire che non saremmo più stati in grado d’incontrarci – volevo che Razan vivesse tranquilla e alla fine le dissi che ero d’accordo.
Comunicavamo via Skype. Razan cercava sempre di rassicurarmi che andava tutto bene ma il mio cuore mi diceva il contrario. Parlavo spesso con suo padre dei miei timori e poi con lei, ma continuava a ripetere di non preoccuparci. Quando la Ghouta orientata è stata stretta d’assedio e alla gente ha iniziato a mancare il pane e altro cibo, la chiamavo per chiederle se avesse qualcosa da mangiare. Rispondeva sempre allo stesso modo: ‘Non preoccuparti, mamma’.
Il 7 dicembre però, all’ennesima insistenza, rispose in modo diverso: ‘Sai cosa vorrei? Dolci, cioccolata. A me e a tutti i bambini del quartiere mancano da tanto tempo’. Il giorno dopo andai al mercato e comprai ogni tipo di cioccolatini. Ne comprai tanti perché sapevo che non erano solo per lei, che li avrebbe distribuiti per la maggior parte alle persone che erano con lei. Presi anche dei medicinali per curare un eritema che le era venuto sulle mani e delle pillole per suo marito Wa’el, che aveva dolori allo stomaco, più altre cose che aveva chiesto Samira, l’amica e collega di Razan.
Il problema era trovare una persona fidata che potesse portare tutte queste cose. La zona era sotto assedio, le strade erano chiuse e non c’era modo né di entrare né di uscire. La mattina dopo, mi svegliarono per dirmi che mia figlia era stata rapita, insieme a suo marito e a Samira e Nazem. Non ci volli credere. Inizialmente pensai che i nomi erano sbagliati, che non fossero stati loro a essere rapiti. E invece, era tutto vero.
Quel giorno mi è crollato il mondo addosso. Non riuscivo a piangere, mi scoppiava il cuore e sentivo dolori che si spargevano in ogni parte del corpo. Sono passati giorni, poi mesi e ora oltre un anno di attesa vana. Ogni sera vado a letto sperando di svegliarmi con qualche buona notizia, ma finora non è successo nulla. La mia speranza sta svanendo, sta lasciando il posto a un amaro realismo.
Ho perso mia figlia in quella zona liberata, dove l’Esercito libero siriano, quello che difendeva la rivoluzione, avrebbe dovuto essere presente, dove io avevo sperato che lei potesse essere al sicuro. La missione di Razan era quella di proteggere i civili in ogni luogo e in ogni circostanza.
Ora non c’è alcuna soluzione in vista e non ho più speranza se non pregare che Allah me la riporti sana e salva, insieme a suo marito e ai suoi amici. Che la libertà torni a loro, come a tutti coloro che sono scomparsi, sequestrati o detenuti in ogni luogo”.