Islamismo globalizzato e odio antioccidentale
Ci siamo persi la parola “anche”. Del tutto tragicamente l’attentato di Parigi ha scatenato la già sentita guerra tra le semplificazioni degli xenofobi e i sofismi degli xenofili, tra il “questo è l’Islam, una religione di sottomissione!” e il “l’Islam non è questo, è una religione di pace!”. Un simile clima di battibecco domestico c’impedisce di riflettere su una questione d’importanza apicale, storica: sul perché e sul come l’Islam può degenerare, in certi suoi usi attuali, anche in terrorismo. Non i semplicistici “sempre” o “mai”, ma un più complesso “anche”.
L’Islam si veste anche di violenza politica quando gli uomini lo traducono in islamismo. È islamismo, fondamentalista o radicale, il richiamarsi all’Islam per costruire un’estetica della morte che eleva lo stermino dei miscredenti non solo a possibilità ma a supremo strumento di gloria necessario per entrare in paradiso (in base a concezioni del sacro che, a seconda degli studiosi, paiono variamente in contrasto o sintonia con il Corano). Però va sottolineato che l’odierno islamismo globalizzato, oltre a poggiare su un’interpretazione arcaicizzante dell’Islam massicciamente finanziata dai grandi poteri economici del mondo arabo, è anche guidato da un filtro culturale assai più secolare: l’odio antioccidentale di matrice postcoloniale. Qui, se appare esagerata la paura generalizzata nei confronti dell’Islam intero in cui una serie di variamente ragionevoli dubbi sulla compatibilità tra la “loro” e la “nostra” visione del mondo degenerano in incubi genocidari, si deve capire che siamo di fronte a una sottovalutazione netta che riguarda invece la diffusione e il peso nel Sud del mondo e non solo del sentimento di avversione contro l’Occidente. Cerchiamo di capire che non ci sono 1,7 miliardi d’islamici che ci vogliono unanimemente sgozzare dal primo all’ultimo: quasi nessuno ci vorrebbe vedere tutti morti. Però rendiamoci conto che – “là” e “qui” – molti, troppi e sempre di più, ci detestano, ci detestano profondamente, non in base a quello che è scritto sul Corano, ma per il discorso che si è diffuso negli ultimi decenni a partire dalla narrazione postcoloniale sul male commesso dall’Occidente. E i pochi che vogliono uccidere tutti gl’infedeli sono una parte esaltata dei troppi che, imbeccati da quella narrazione, detestano tutti gli occidentali.
In tal senso la religione funziona come un altare usato per sacralizzare, e quindi elevare alla massima potenza, un risentimento politico con cui il malcontento minuto e quotidiano per non trovare un posto nel mondo si sfoga su un capro espiatorio: l’Occidente. L’Occidente responsabile di tutte le nefandezze, razzista, sfruttatore, coloniale, imperialista, capitalista; con il suo potere che viene solo da una violenza storica; gli occidentali e il loro benessere visto come usurpazione avara imposta da una società decadente d’imbecilli viziati, senza spiritualità, senz’anima. C’è un rapporto circolare di reciproco foraggiamento e amplificazione in cui da un lato l’odio politico antimperialista trova nell’ecumenismo guerriero islamista una prospettiva tradizionale di santificazione, dall’altro l’ecumenismo guerriero islamista trova nell’odio politico antimperialista un piano contemporaneo di ragione e di legittimazione sociale. Chi ha esultato per i morti di Parigi, come chi esultò per le Twin Towers, viene da quella cultura, da un innesto tra islamismo e odio antioccidentale di derivazione postcoloniale; ed è quest’innesto che deve preoccupare, non l’Islam.
Non a caso l’odierno islamista non si ferma al “totem” della rappresentazione manichea (ossia espressa in termini assoluti di vittima/carnefice, bene/male) del conflitto Palestina/Israele: egli non può fare a meno di collocare quest’emblema identitario primario sulla cornice fondamentale di una narrazione postcoloniale della storia globale, di un discorso dove dall’Occidente è forcluso qualsiasi aspetto positivo, in una rappresentazione che ne riduce la vicenda alla lista dei suoi crimini coloniali e bellici, non può fare a meno di salmodiare una sequela di orrori, un elenco di milioni e milioni di morti ammazzati da un lato solo. Una lista di “voi avete fatto questo e noi no” a cui viene contrapposta l’innocenza del mondo islamico, investito pertanto di una missione guida di redenzione dai mali commessi dal Nord del mondo. Quest’altra visione manichea e palingenetica diventa il pretesto per legittimare un sentimento di profondo disprezzo e quindi di pretese nei confronti della nostra società che tutto deve per ripagare l’immenso mal fatto; un sentimento che da desiderio di riscatto può farsi ardore di vendetta. In esistenze precarie profondamente segnate da un senso di offesa, se l’odio antioccidentale fornisce una spiegazione del mondo individuando un capro espiatorio, l’islamismo provvede a un orizzonte, tanto immanente quanto trascendente, di redenzione.
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