Ai bordi della strada chiazze di neve gelata, sporche, si contendono spazio con i crateri anneriti delle esplosioni. Pervomaisk, Primo Maggio, è scritto sul cartello, anche quello crivellato di schegge d’obice, all’ingresso di questa città a pochi chilometri da Lughansk, la capitale della autoproclamata Repubblica Popolare del Lughansk, nella regione russofona del Donbass (guarda il video). Ci fermiamo in uno spiazzo circondato da palazzi di edilizia popolare, sette o otto piani, squadrati, di stile sovietico. La loro geometria monotona è interrotta, stravolta da squarci nelle mura che paiono eruttare colate di macerie fossilizzate. Uno degli squarci è talmente grande da attraversare la struttura lasciando intravedere dall’altra parte delle pareti annerite dal fuoco uno spicchio di cielo grigio.
“Lì viveva una madre con i suoi tre bambini…”. Si sono avvicinate quattro donne di mezz’età imbacuccate per il freddo. “Non è rimasto nulla di lei e dei suoi figli. L’esplosione li ha disintegrati tutti” ci dice, indicando la voragine, una di loro, Irina. Racconta senza che dalla sua espressione trapeli alcuna emozione. Dolore, commozione, paura, forse tutte le emozioni di Irina sono bruciate, ridotte in macerie come la città in cui continua a vivere. Prima della guerra contava 25mila abitanti, adesso ne sono restati meno di 8mila, la maggior parte ha cercato rifugio in Russia. Non c’è più elettricità, né acqua corrente. Centrale elettrica, acquedotto, tutto distrutto dai bombardamenti.
“Ma perché non ve ne andate, non fuggite?”. Irina scuote la testa rassegnata ed ostinata. “Questa è la nostra terra”. “Ma come fate a sopravvivere così?”. “I cosacchi ci portano il cibo quando ne hanno (leggi). Quando non ne hanno a sufficienza se ne privano per noi”. Tutta quest’area è difesa dalla Guardia Nazionale Cosacca della Grande Armata del Don. “Solo loro pensano a noi. L’Europa arma l’esercito ucraino che ci bombarda. Perché? Anche noi eravamo ucraini“. Lo scoppiettio ansimante di un motore interrompe lo sfogo di Irina. Un vecchio e scassatissimo camioncino entra nel cortile facendo lo slalom tra carcasse di auto bruciate, mucchi di immondizia e cumuli di macerie. Come attratti da un richiamo altri gruppi di donne escono dalle palazzine semidistrutte con in mano sporte di bottiglie e tanichette di plastica. Il camioncino si ferma. Sullo sportello, dipinti a mano, una stella rossa e il simbolo della pace.
Il conducente è ancor più vecchio del mezzo. Magro, il viso incorniciato da una folta barba bianca, sul capo una consunta bustina dell’armata rossa della seconda guerra mondiale. Saluta le donne con un sorriso e le aiuta a riempire bottiglie e taniche di acqua potabile dalla cisterna di plastica montata sul cassone del camion. La prima linea del fronte si trova poco al di là di queste palazzine. Una donna che spinge un passeggino con un bambino piccolo attraversa la strada spezzata ad una cinquantina di metri da una trincea protetta da tronchi d’albero, sacchetti di sabbia e da una garitta di travi di legno dalla quale spunta la canna di una mitragliatrice pesante. E’ questo l’avamposto più avanzato della difesa di Pervomaisk presidiato dall’armata cosacca.
Riparato dietro le mura di una casa distrutta c’è un gazebo di plastica. Sotto, in un barile arrugginito, brucia un po’ di legna. E’il turno di Roman di scaldarsi. Stende le mani intirizzite dal freddo sul braciere di fortuna godendosi un po’ di tepore e di silenzio. “Tre giorni che c’è silenzio…” ci dice abbozzando un sorriso tra la barba rada e biondiccia che gli copre le guance. “Dopo trentadue giorni nei quali siamo stati incessantemente sotto il fuoco dell’artiglieria“. Roman ha 28 anni. Ne dimostra meno, nonostante le occhiaie di stanchezza impresse sul volto, la mimetica che indossa e il Kalashnikov a tracolla. Non sa per quanto ancora ci sarà silenzio e non sa quanto ancora durerà questa guerra. “Vogliamo la pace ma sul nostro pezzo di terra. Riunirsi all’Ucraina non è più possibile. L’esercito di Kiev ha sparato sul proprio popolo. Non ci resta che resistere fino in fondo”.
Ed è proprio della Resistenza che parla Roman. “Contro i nazisti di là…” indica con il braccio la linea del fronte. “Di là c’è anche il battaglione Azov della Guardia Nazionale Ucraina. Hanno la svastica sulla uniforme. Come è possibile che l’Europa li sostenga?”. Azov, Aidar, Donbass-Dnepr, Dnepr uno, Dnepr due, sono i battaglioni composti da volontari di estrema destra integrati nelle forze regolari ucraine e finanziati, al pari del gruppo neo fascista Pravij Sektor, dall’oligarca Igor Kolomoisky, Il ricchissimo e potente governatore della regione di Dnepropetrovsk che oltre a quello ucraino ha anche passaporto cipriota ed israeliano. Sorride di nuovo Roman mentre ci saluta alzando il pugno. “No pasaran!”. Il saluto dei repubblicani della guerra di Spagna qui tra i cosacchi ha trovato nuova vita e purtroppo riacquistato senso ed è divenuto comune.
“No pasaran!” ripete Roman come volesse rassicurare anche noi. LIUDJ scritta a grandi caratteri con la vernice bianca, questa parola che in russo significa Persone, si ripete a tratti dipinta su abitazioni e scuole. Un segnale che lì ci sono civili, non combattenti. Un tentativo di protezione dal fuoco dei bombardamenti. La vediamo anche sul muro di una casa bruciata mentre lasciamo Pervomaisk per continuare questo nostro viaggio nella distruzione verso Novosvietlavka, sulla via che conduce al vecchio areoporto. LIUDJ, persone. E’ proprio contro le persone che questa guerra pare accanirsi.
Siamo partiti da Lughansk, Abbiamo attraversato Stakanov, Pervomaisk e ovunque abbiamo visto scuole, ospedali, fabbriche, centrali elettriche ed idriche distrutte. Sistematicamente vengono colpite tutte le strutture vitali per la popolazione delle città e dei villaggi. Non è possibile non scorgere un disegno pianificato di pulizia etnica. La volontà di costringere le ‘Persone’ che qui vivono e sopravvivono ad abbandonare quest’area e rifugiarsi in Russia, come molti sono già stati costretti a fare, facendo intorno a loro terra bruciata. Terra bruciata è il villaggio di Novosvietlavka. Bruciate quasi tutte le semplici isbe che lo compongono. Distrutto l’acquedotto, la casa della cultura, la chiesa, la scuola.
Sulle macerie di quest’ultima, vicino alla carcassa di uno scuola-bus giallo crivellato di colpi, è rimasto in piedi un grande cartello con ritratti ragazzi e ragazze felici sotto la scritta “Quelli della scuola sono gli anni più belli”, che suona drammaticamente ironica in questo sfacelo. Anche l’ospedale è ridotto ad un cumulo di macerie. Il viceprimario Vladimir Nikolaj Svarjevsky cerca di darsi un contegno. Pare vergognarsi, nemmeno fosse lui il responsabile di questa devastazione. Ma poi cede e gli occhi gli si riempiono di lacrime, la bocca di parole di un racconto dell’orrore che sembra non volersi interrompere più. “Qui sono arrivati i miliziani del battaglione Aidar…”. Saccheggi, fucilazioni, fosse comuni, cadaveri profanati per sfregio… Pochi sono gli abitanti rimasti a Novosvietlavka. C’è un vecchio: “Mi sono rifugiato in cantina. Quattro giorni nascosto al buio, senza cibo nè acqua”. Un gruppo di ragazzini che aspetta, vicino alla carcassa di un carrarmato bruciato, un bus che li porterà ad una scuola a dieci chilometri da qui.”La nostra era più bella, più grande…” dice uno di loro. E branchi di cani. “Sono molto pericolosi, attenti…”, il vecchio ci mette in guardia. “La fame. Lo shock delle esplosioni li hanno riportati allo stato selvatico. Sono diventati come belve. Aggrediscono gli uomini”. Belve.
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Mondo
Viaggio in Ucraina: al fronte di Lugansk con i ribelli filorussi. Tra fantasmi e ferite
Seconda puntata del reportage nel paese dell’Europa orientale dilaniato da un conflitto che continua a mietere fame, morte e distruzione. Dopo Slovianks e Kiev, una delle due province ribelli che hanno dichiarato unilateralmente la propria indipendenza scatenando la reazione militare del governo ucraino
Ai bordi della strada chiazze di neve gelata, sporche, si contendono spazio con i crateri anneriti delle esplosioni. Pervomaisk, Primo Maggio, è scritto sul cartello, anche quello crivellato di schegge d’obice, all’ingresso di questa città a pochi chilometri da Lughansk, la capitale della autoproclamata Repubblica Popolare del Lughansk, nella regione russofona del Donbass (guarda il video). Ci fermiamo in uno spiazzo circondato da palazzi di edilizia popolare, sette o otto piani, squadrati, di stile sovietico. La loro geometria monotona è interrotta, stravolta da squarci nelle mura che paiono eruttare colate di macerie fossilizzate. Uno degli squarci è talmente grande da attraversare la struttura lasciando intravedere dall’altra parte delle pareti annerite dal fuoco uno spicchio di cielo grigio.
“Lì viveva una madre con i suoi tre bambini…”. Si sono avvicinate quattro donne di mezz’età imbacuccate per il freddo. “Non è rimasto nulla di lei e dei suoi figli. L’esplosione li ha disintegrati tutti” ci dice, indicando la voragine, una di loro, Irina. Racconta senza che dalla sua espressione trapeli alcuna emozione. Dolore, commozione, paura, forse tutte le emozioni di Irina sono bruciate, ridotte in macerie come la città in cui continua a vivere. Prima della guerra contava 25mila abitanti, adesso ne sono restati meno di 8mila, la maggior parte ha cercato rifugio in Russia. Non c’è più elettricità, né acqua corrente. Centrale elettrica, acquedotto, tutto distrutto dai bombardamenti.
“Ma perché non ve ne andate, non fuggite?”. Irina scuote la testa rassegnata ed ostinata. “Questa è la nostra terra”. “Ma come fate a sopravvivere così?”. “I cosacchi ci portano il cibo quando ne hanno (leggi). Quando non ne hanno a sufficienza se ne privano per noi”. Tutta quest’area è difesa dalla Guardia Nazionale Cosacca della Grande Armata del Don. “Solo loro pensano a noi. L’Europa arma l’esercito ucraino che ci bombarda. Perché? Anche noi eravamo ucraini“. Lo scoppiettio ansimante di un motore interrompe lo sfogo di Irina. Un vecchio e scassatissimo camioncino entra nel cortile facendo lo slalom tra carcasse di auto bruciate, mucchi di immondizia e cumuli di macerie. Come attratti da un richiamo altri gruppi di donne escono dalle palazzine semidistrutte con in mano sporte di bottiglie e tanichette di plastica. Il camioncino si ferma. Sullo sportello, dipinti a mano, una stella rossa e il simbolo della pace.
Il conducente è ancor più vecchio del mezzo. Magro, il viso incorniciato da una folta barba bianca, sul capo una consunta bustina dell’armata rossa della seconda guerra mondiale. Saluta le donne con un sorriso e le aiuta a riempire bottiglie e taniche di acqua potabile dalla cisterna di plastica montata sul cassone del camion. La prima linea del fronte si trova poco al di là di queste palazzine. Una donna che spinge un passeggino con un bambino piccolo attraversa la strada spezzata ad una cinquantina di metri da una trincea protetta da tronchi d’albero, sacchetti di sabbia e da una garitta di travi di legno dalla quale spunta la canna di una mitragliatrice pesante. E’ questo l’avamposto più avanzato della difesa di Pervomaisk presidiato dall’armata cosacca.
Riparato dietro le mura di una casa distrutta c’è un gazebo di plastica. Sotto, in un barile arrugginito, brucia un po’ di legna. E’il turno di Roman di scaldarsi. Stende le mani intirizzite dal freddo sul braciere di fortuna godendosi un po’ di tepore e di silenzio. “Tre giorni che c’è silenzio…” ci dice abbozzando un sorriso tra la barba rada e biondiccia che gli copre le guance. “Dopo trentadue giorni nei quali siamo stati incessantemente sotto il fuoco dell’artiglieria“. Roman ha 28 anni. Ne dimostra meno, nonostante le occhiaie di stanchezza impresse sul volto, la mimetica che indossa e il Kalashnikov a tracolla. Non sa per quanto ancora ci sarà silenzio e non sa quanto ancora durerà questa guerra. “Vogliamo la pace ma sul nostro pezzo di terra. Riunirsi all’Ucraina non è più possibile. L’esercito di Kiev ha sparato sul proprio popolo. Non ci resta che resistere fino in fondo”.
Ed è proprio della Resistenza che parla Roman. “Contro i nazisti di là…” indica con il braccio la linea del fronte. “Di là c’è anche il battaglione Azov della Guardia Nazionale Ucraina. Hanno la svastica sulla uniforme. Come è possibile che l’Europa li sostenga?”. Azov, Aidar, Donbass-Dnepr, Dnepr uno, Dnepr due, sono i battaglioni composti da volontari di estrema destra integrati nelle forze regolari ucraine e finanziati, al pari del gruppo neo fascista Pravij Sektor, dall’oligarca Igor Kolomoisky, Il ricchissimo e potente governatore della regione di Dnepropetrovsk che oltre a quello ucraino ha anche passaporto cipriota ed israeliano. Sorride di nuovo Roman mentre ci saluta alzando il pugno. “No pasaran!”. Il saluto dei repubblicani della guerra di Spagna qui tra i cosacchi ha trovato nuova vita e purtroppo riacquistato senso ed è divenuto comune.
“No pasaran!” ripete Roman come volesse rassicurare anche noi. LIUDJ scritta a grandi caratteri con la vernice bianca, questa parola che in russo significa Persone, si ripete a tratti dipinta su abitazioni e scuole. Un segnale che lì ci sono civili, non combattenti. Un tentativo di protezione dal fuoco dei bombardamenti. La vediamo anche sul muro di una casa bruciata mentre lasciamo Pervomaisk per continuare questo nostro viaggio nella distruzione verso Novosvietlavka, sulla via che conduce al vecchio areoporto. LIUDJ, persone. E’ proprio contro le persone che questa guerra pare accanirsi.
Siamo partiti da Lughansk, Abbiamo attraversato Stakanov, Pervomaisk e ovunque abbiamo visto scuole, ospedali, fabbriche, centrali elettriche ed idriche distrutte. Sistematicamente vengono colpite tutte le strutture vitali per la popolazione delle città e dei villaggi. Non è possibile non scorgere un disegno pianificato di pulizia etnica. La volontà di costringere le ‘Persone’ che qui vivono e sopravvivono ad abbandonare quest’area e rifugiarsi in Russia, come molti sono già stati costretti a fare, facendo intorno a loro terra bruciata. Terra bruciata è il villaggio di Novosvietlavka. Bruciate quasi tutte le semplici isbe che lo compongono. Distrutto l’acquedotto, la casa della cultura, la chiesa, la scuola.
Sulle macerie di quest’ultima, vicino alla carcassa di uno scuola-bus giallo crivellato di colpi, è rimasto in piedi un grande cartello con ritratti ragazzi e ragazze felici sotto la scritta “Quelli della scuola sono gli anni più belli”, che suona drammaticamente ironica in questo sfacelo. Anche l’ospedale è ridotto ad un cumulo di macerie. Il viceprimario Vladimir Nikolaj Svarjevsky cerca di darsi un contegno. Pare vergognarsi, nemmeno fosse lui il responsabile di questa devastazione. Ma poi cede e gli occhi gli si riempiono di lacrime, la bocca di parole di un racconto dell’orrore che sembra non volersi interrompere più. “Qui sono arrivati i miliziani del battaglione Aidar…”. Saccheggi, fucilazioni, fosse comuni, cadaveri profanati per sfregio… Pochi sono gli abitanti rimasti a Novosvietlavka. C’è un vecchio: “Mi sono rifugiato in cantina. Quattro giorni nascosto al buio, senza cibo nè acqua”. Un gruppo di ragazzini che aspetta, vicino alla carcassa di un carrarmato bruciato, un bus che li porterà ad una scuola a dieci chilometri da qui.”La nostra era più bella, più grande…” dice uno di loro. E branchi di cani. “Sono molto pericolosi, attenti…”, il vecchio ci mette in guardia. “La fame. Lo shock delle esplosioni li hanno riportati allo stato selvatico. Sono diventati come belve. Aggrediscono gli uomini”. Belve.
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Mondo
Ucraina, summit a Parigi: Meloni frena sull’invio di truppe. E Scholz: “Sbagliato parlare di militari Ue sul terreno”. Starmer: “Per la pace vitali le garanzie Usa”
Politica
Russia ancora contro Mattarella: ‘Parallelo con Hitler? Conseguenze’. Ovazione in Aula per il Presidente. M5s: “Noi non l’avremmo detto”
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Conte lancia la piazza anti-governo: “Stanchi di prese in giro”. Schlein: “Ci siamo, organizziamola insieme”
La Paz, 17 feb. (Adnkronos/Afp) - Almeno 30 persone sono morte a causa di un incidente che ha coinvolto un autobus passeggeri, precipitato in un burrone profondo 800 metri nella città di Yocalla, nel sud della Bolivia. Lo ha riferito la polizia locale.
Tel Aviv, 17 feb. (Adnkronos) - Secondo quanto riportato dall'emittente statale israeliana Kan, citando diverse fonti, il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, non fa più parte del team incaricato delle trattative per la liberazione degli ostaggi. Fonti a conoscenza dei dettagli affermano che Bar potrebbe unirsi a una delegazione in futuro se si svolgeranno i negoziati sulla fase due.
Roma, 17 feb. (Adnkronos) - Prosegue la protesta di Azione alla Camera sul decreto Milleproroghe: il capogruppo Matteo Richetti e la vicecapogruppo Elena Bonetti lasciano i lavori in corso nelle commissioni congiunte Affari Costituzionali e Bilancio. “Dopo il tempo sprecato dal governo nella discussione al Senato alla ricerca di una composizione delle divisioni interne, il testo del decreto è stato trasferito alla Camera solo questa mattina e approderà in Aula nella giornata domani. Alle Commissioni riunite – dichiarano Richetti e Bonetti – non restano che poche ore di esame notturno, una scelta che rende inutile ogni confronto di merito sulle misure contenute nel provvedimento e offende profondamente la funzione parlamentare e la dignità dei deputati membri. Se il governo intende ridurci a figuranti, abbia almeno la decenza di assumersene la responsabilità davanti al Paese. Noi non li aiuteremo”. Azione aveva già espresso nella mattinata la propria contrarietà al ripetuto ricorso alla fiducia, rendendo noto di non aver presentato, per questa ragione, emendamenti al decreto Milleproroghe.
Beirut, 17 feb. (Adnkronos) - Il governo libanese ha annunciato di aver approvato una risoluzione secondo cui soltanto lo Stato potrà possedere armi. La risoluzione chiede di fatto il disarmo di Hezbollah e include l'impegno a rispettare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Roma, 17 feb. (Adnkronos) - Ha ribadito le perplessità sul formato del vertice di Parigi, sull'invio di truppe europee in Ucraina e la necessità di percorrere strade che prevedano il coinvolgimento degli Stati Uniti. Queste le linee, a quanto si apprende, dell'intervento della premier Giorgia Meloni oggi al summit a Parigi convocato da Emmanuel Macron alla presenza del britannico Keir Starmer, del premier olandese, Dick Schoof, del cancelliere tedesco Olaf Scholz, del capo del governo polacco Donald Tusk e del primo ministro spagnolo Pedro Sanchez. All'Eliseo anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte e i vertici Ue, Antonio Costa e Ursula von der Leyen.
Meloni, a quanto si apprende, ha sottolineato di aver voluto essere presente per non rinunciare a portare il punto di vista dell’Italia, ma di avere espresso le sue perplessità riguardo un formato che, a suo giudizio, esclude molti Paesi, a partire da quelle più esposti al rischio di estensione del conflitto, anziché includere, come sarebbe opportuno fare in una fase storica come questa. Anche perché, avrebbe rimarcato la premier, la guerra in Ucraina l’abbiamo pagata tutti.
Per l'Italia le questioni centrali rimangono le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, perché senza queste ogni negoziato rischia di fallire. Quindi Meloni avrebbe rimarcato l'utilità di un confronto tra le varie ipotesi in campo, osservando come quella che prevede il dispiegamento di soldati europei in Ucraina appaia come la più complessa e forse la meno efficace. Una strada su cui l'Italia avrebbe mostrato le sue perplessità al tavolo.
Secondo Meloni, a quanto viene riferito, andrebbero esplorate altre strade che prevedano il coinvolgimento anche degli Stati Uniti, perché è nel contesto euro-atlantico che si fonda la sicurezza europea e americana. La premier avrebbe definito una sferzata sul ruolo dell'Europa quella lanciata dall'amministrazione Usa ma ricordando che prima di questa analoghe considerazioni sono state già state fatte da importanti personalità europee. È una sfida, avrebbe quindi sottolineato, per essere più concreti e concentrarsi sulle cose davvero importanti, come la necessità di difendere la nostra sicurezza a 360 gradi, i nostri confini, i nostri cittadini, il nostro sistema produttivo.
Secondo la presidente del Consiglio sono i cittadini europei a chiederlo: non dobbiamo chiederci cosa gli americani possono fare per noi, ma cosa noi dobbiamo fare per noi stessi.
Meloni avrebbe quindi rimarcato come il formato del summit all'Eliseo non vada considerato come un formato anti-Trump. Tutt’altro. Gli Stati Uniti lavorano a giungere ad una pace in Ucraina e noi dobbiamo fare la nostra parte, la sollecitazione della premier italiana. Meloni infine, sempre a quanto si apprende, avrebbe manifestato condivisione per il senso della parole del Vice Presidente degli Stati Uniti Vance, ricordando di aver espresso concetti simili in precedenza. Ancora prima di garantire la sicurezza in Europa, avrebbe sottolineato Meloni, è necessario sapere che cosa stiamo difendendo.
Parigi, 17 feb. (Adnkronos/Afp) - "La Russia minaccia tutta l'Europa". Lo ha detto la premier danese Mette Frederiksen dopo i colloqui di emergenza a Parigi sul cambiamento di politica degli Stati Uniti sulla guerra in Ucraina.
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Parigi, 17 feb. (Adnkronos) - "Oggi a Parigi abbiamo ribadito che l'Ucraina merita la pace attraverso la forza. Una pace rispettosa della sua indipendenza, sovranità, integrità territoriale, con forti garanzie di sicurezza. L'Europa si fa carico della sua intera quota di assistenza militare all'Ucraina. Allo stesso tempo abbiamo bisogno di un rafforzamento della difesa in Europa". Lo ha scritto su X la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.